Leningrado, fine anni 70-91. Formidabile rassegna della rassegnazione.
Io la visitai nel 1990, con la scuola (giuro).
Io la visitai nel 1990, con la scuola (giuro).
Questa è la cronaca di un disastro annunciato. È la storia di un’involuzione, di un ripiegamento su se stessi, di una fuga dalla realtà camuffata da progresso, la sintesi e la proiezione della crisi di un continente. È il caso spagnolo dentro il dossier Europa.Adesso tornate pure a leggere Il Post.
Mass violence, he explained, could shatter a man’s sense of natural justice. In normal times “had he stumbled upon a corpse on the street, he would have called the police. A crowd would have gathered, and much talk and comment would have ensued. Now he knows he must avoid the dark body lying in the gutter, and refrain from asking unnecessary questions…”.La banalità del male, la perdita dell’innocenza, di qualsiasi dimensione sociale, il rifugiarsi dentro se stessi, creandosi un mondo chiuso nel quale non poter essere attaccati. Ed è vero, come sostiene Milosz, che generalmente all’uomo occidentale manca la capacità non solo di comprendere ma perfino di immaginare simili tragedie (parliamo in particolare dell’americano, che le ha vissute – almeno fino all’11 settembre – solo da lontano o in maniera mediata, ma anche dei cittadini di quegli stati dell’Europa occidentale che non sono stati teatro di massacri di grandi proporzioni). E’ anche vero però che nella nostra epoca, fatte salve tutte le differenze del caso, un simile sentimento di estraneità alla realtà che ci circonda è comunque riscontrabile nei comportamenti quotidiani di molti di noi. Come spiegare altrimenti la freddezza con cui si osserva una madre ricevere in diretta televisiva la notizia della morte della propria figlia, o la calcolata follia di chi massacra di botte un taxista per aver involontariamente investito un cane? Il paragone è azzardato, lo riconosco, probabilmente fuori luogo. Ma il parallelismo non riguarda tanto l’origine del male, che nel caso degli stermini del secolo scorso (con appendici nel presente) era frutto di ideologie assassine mentre nell’odierno panorama di ordinaria alienazione è addebitabile ad una serie di concause molto più sfuggenti. Riguarda piuttosto la nostra reazione di fronte al male, lo scudo di protezione che ci costruiamo perché il sangue non ci macchi il vestito, o l’anima, fino a non porci più nessuna domanda. Per spiegare meglio ciò che intendo, prendo a prestito questa brillante (anche se un po’ libera) interpretazione delle analogie-differenze tra la realtà descritta da Orwell in 1984 e quella rappresentata da Huxley in Brave New World. Si può dire che il passato totalitario e la guerra hanno il loro corrispettivo nella censura, nel controllo capillare e nell’indottrinamento delle menti raccontato in 1984, mentre la contemporaneità smarrita, la perdita del senso della realtà, il rifiuto di alcuni valori essenziali alla convivenza, l’indifferenza di fronte al male, rientrano nelle categorie dell’eccesso di stimoli (visioni, desideri, informazioni) e della superficialità dei messaggi che ci vengono veicolati continuamente. Allora, se Orwell aveva completamente ragione sul XX secolo, Huxley ha parzialmente ragione sul XXI: la banalità del male si manifesta in forme e proporzioni diverse, ma è un eterno ritorno e non ci abbandona. Da qui la necessità di non cedere di un millimetro nella difesa delle società democratiche in cui viviamo, sia dall’attacco delle nuove/vecchie ideologie sia dalle sirene dell’apatia e della rassegnazione. “Il pacifismo è oggettivamente pro-fascista”, scriveva sempre Orwell, e se il “lasciateci in pace” è un comprensibile anelito in tempi di distruzione, diventa un’intollerabile scusa per la passività e l’inazione nelle epoche di benessere.
This region was also the site of most of the politically motivated killing in Europe—killing that began not in 1939 with the invasion of Poland, but in 1933, with the famine in Ukraine. Between 1933 and 1945, fourteen million people died there, not in combat but because someone made a deliberate decision to murder them.Non a caso i nazisti potevano declinare le loro ambizioni sull’Ucraina dichiarando che il socialismo in un solo paese sarebbe stato rimpiazzato dal socialismo per la razza tedesca; non a caso sia Hitler che Stalin scatenarono una guerra senza quartiere contro le élites intellettuali, politiche e religiose di quei paesi; non a caso il trattamento dei prigionieri di guerra rispondeva su entrambi i fronti alle stesse logiche assassine, la morte per inedia e per abbandono nei rispettivi campi di detenzione (almeno nei primi anni di conflitto). Da qui la necessità di studiare le atrocità naziste e sovietiche come parte di una comune storia del terrore, perché è così che le vittime delle bloodlands le hanno vissute e patite, ma anche di capire come i due totalitarismi si alimentassero a vicenda:
Yet Snyder does not exactly compare the two systems either. His intention, rather, is to show that the two systems committed the same kinds of crimes at the same times and in the same places, that they aided and abetted one another, and above all that their interaction with one another led to more mass killing than either might have carried out alone.Ma uno degli spunti di riflessione più originali viene dalla riconsiderazione che Snyder compie del ruolo dei campi di concentramento e dei prigionieri che vi furono rinchiusi. Contrariamente a quanto si è portati a pensare, la maggior parte delle vittime dei due regimi totalitari non trovò la morte nei lager e nei gulag ma fu il prodotto di politiche di sterminio portate a termine con modalità e tempistiche diverse, esecuzioni di massa, camere a gas, fucilazioni, decessi per fame indotti da politiche genocide. Sia nel caso tedesco che in quello sovietico i campi erano destinati allo sfruttamento di una enorme forza lavoro ridotta in schiavitù per alimentare le rispettive macchine da guerra (interne ed esterne). Certamente vi furono milioni di morti anche all’interno dei campi, per la durezza del lavoro e le precarie condizioni di vita, ma gli internati, a differenza di coloro che vennero giustiziati in numero ben maggiore al di fuori dei sistemi concentrazionari, servivano vivi. Quell’Arbeit macht frei non era solo un macabro ghigno rivolto a chi entrava ad Auschwitz o a Dachau ma conteneva un fondo di verità (il lavoro forzato): tanto è vero che, mentre abbiamo immagini di sopravvissuti ai lager e ai gulag, praticamente non vi sono testimonianze dirette degli stermini di massa avvenuti nelle foreste, nelle campagne, tra le montagne, al riparo da sguardi indiscreti. Perché è importante questa valutazione? Perché fa cadere la falsa dicotomia, alimentata da decenni di ipocrisia politicamente motivata, tra campi di sterminio (nazisti) e campi di lavoro (comunisti), tra un sistema concepito per uccidere ed un altro in cui la morte era solo una possibile conseguenza, quasi un fattore accidentale, anche se accettato o previsto. In realtà sia il lager che il gulag erano industrie di schiavi, luoghi in cui l’uomo veniva usato come bestia da lavoro e spremuto fino alle ultime conseguenze. Ma anche luoghi in cui, se in grado di lavorare al servizio dei propri carcerieri, un prigioniero aveva qualche possibilità di sopravvivenza. Sono questioni enormi, me ne rendo conto, che richiederebbero analisi molto più approfondite. Ma alcune linee guida si possono comunque tracciare.
As a result, we liberated one half of Europe at the cost of enslaving the other half for fifty years. We really did win the war against one genocidal dictator with the help of another. There was a happy end for us, but not for everybody. This does not make us bad—there were limitations, reasons, legitimate explanations for what happened. But it does make us less exceptional. And it does make World War II less exceptional, more morally ambiguous, and thus more similar to the wars that followed.La coltre di silenzio calata sulle terre dell’Europa orientale per mezzo secolo non fu solo quella imposta da Mosca e dai gerarchi comunisti che per conto dell’Unione Sovietica reggevano le sorti dei rispettivi paesi, ma ebbe il suo corrispettivo anche nella pavida e spesso complice condiscendenza delle classi politiche e soprattutto delle élites culturali occidentali, ben liete queste ultime di farsi portavoce delle parole d’ordine dell’ideologia e di propagandare le virtù del socialismo reale. E’ un’onda lunga la cui portata non si è ancora esaurita.
In the United States, the term "liberal" has come to be associated with leftism, socialism, and an ambitious role for government in the economy. Many who describe their politics as "liberal" emphatically favor measures which desire to push aside free enterprise. Some who call themselves liberal show even greater hostility toward business, loudly protesting the very idea of economic freedom and promoting a vision of society not so different from the failed utopian experiments of history's socialist and fascist regimes.Comunque non c'è bisogno di essere Vargas Llosa. Basta aver aperto il sussidiario al capitolo sul XX secolo.
In Latin America and Spain, where the word "liberal" originated to mean an advocate of liberty, the left now uses the label as an invective.