24 nov 2013

Bombe, diplomatici e apatici. L'accordo sul nucleare raggiunto questa notte a Ginevra tra le sei potenze e l'Iran, subito definito "storico" dalla stampa internazionale (tutto quello che fa Obama è storico per principio), lascia intatta l'attuale struttura atomica di Teheran e di fatto non sposta di un millimetro la situazione venutasi a creare nel corso degli anni. Come tutti i documenti di questo genere, si basa essenzialmente su promesse che in teoria il controllo internazionale dovrebbe incaricarsi di far rispettare. Come in Iraq, come in Corea del Nord. L'esperienza insegna che questi deals sono destinati al fallimento, soprattutto perché quello che in occidente non si mette mai in discussione - ovvero la buona fede della controparte - nel caso di stati fondamentalisti come quelli citati è il punto che sempre fa saltare il banco, prima o poi. Ma sembra che dagli errori, in diplomazia, non si impari mai nulla.
Detto questo, c'è una considerazione che si sente ripetere con frequenza e che fa particolarmente riflettere: quella secondo cui il patto permetterebbe all'Iran di compiere i primi passi verso il suo rientro nella comunità internazionale, come se si trattasse di un obiettivo auspicabile di per sé, indipendentemente dalle caratteristiche e dall'evoluzione del regime islamista. A parte che non mi risulta che, nonostante le sanzioni, l'Iran fosse mai stato escluso dal consesso mondiale, colpisce in ogni caso la supeficialità con la quale si continua a pensare che il virus fondamentalista (religioso o laico) non costituisca più un pericolo per il solo fatto di essere inserito all'interno di un organismo sano (mi si passi la semplificazione). Si torna a temi abusati come l'appeasement, la realpolitik e tutto l'armamentario di chi non contempla la componente ideologica nelle relazioni internazionali. Non mi ci soffermo più, per non annoiare. Mi limito a notare che anche certo liberalismo difensivo contribuisce a questo equivoco, che secondo me rappresenta la principale causa della mancata soluzione dei conflitti alla radice. Nelle già citate Memorie per esempio, Raymond Aron - liberale e democratico come pochi altri - si ostina ad affermare che la democrazia non si può imporre. Da un punto di vista puramente teorico la tesi potrebbe perfino considerarsi coerente con i principi del liberalismo, se solo la decisione di vivere o no in un regime democratico non fosse un'imposizione (questa sì) del potere politico ma una scelta di chi vi è sottoposto. Purtroppo la seconda ipotesi non risulta agli atti, almeno che io sappia: anche chi vota governi che, una volta consolidatisi, assumeranno caratteri autoritari, non lo fa con l'intenzione di vivere nell'oppressione, privato di diritti e di libertà, ma in base a valutazioni di altro tipo. Allora, rifiutando l'azione per eliminare l'oggettiva disparità di forze e di intenti tra cittadini e governo dittatoriale, il liberalismo finisce per accettare che la volontà dello stato prevalga su quella degli individui, contraddicendo se stesso. Si può essere tolleranti con gli intolleranti? Certamente, a patto di essere disposti a pagarne il prezzo e soprattutto a farlo pagare a chi non può esprimersi. Tra liberalismo e apatia a volte il passo è brevissimo.

12 nov 2013

L'America civile e moderna. Questo passaggio dell'editoriale di Richard Cohen sul WP sta facendo un po' discutere, negli Stati Uniti:
Today’s GOP is not racist, as Harry Belafonte alleged about the tea party, but it is deeply troubled — about the expansion of government, about immigration, about secularism, about the mainstreaming of what used to be the avant-garde. People with conventional views must repress a gag reflex when considering the mayor-elect of New York — a white man married to a black woman and with two biracial children. (Should I mention that Bill de Blasio’s wife, Chirlane McCray, used to be a lesbian?) This family represents the cultural changes that have enveloped parts — but not all — of America. To cultural conservatives, this doesn’t look like their country at all.

10 nov 2013

L'Italia civile e moderna. Ma di Paolo Ferrero ce ne sono dappertutto.
Allons enfants. Un altro motivo per cui vale la pena leggere le Memorie di Aron è ricordare quanto miope (per non dire meschina) sia stata la politica estera francese nel dopoguerra, soprattutto a partire dalla seconda tappa del gollismo: creazione della forza nucleare strategica, uscita dal comando unificato della NATO, relazione privilegiata con l'Unione Sovietica, antiamericanismo e antiatlantismo. Tutti elementi che sarebbero poi diventati costitutivi di una mentalità europea le cui conseguenze paghiamo ancora oggi. Da De Gaulle a Pompidou a Giscard a Mitterand a Chirac, destra e sinistra unite e indistinguibili nella loro unica strategia riconoscibile in materia di relazioni internazionali: l'intelligenza con il nemico. Che ovviamente ne approfittava e se ne serviva, ça va sans dire.

9 nov 2013

Stronzi ma civili (o viceversa)/3. Io uno che diventa comunista il giorno che la Germania Est (quella comunista) fa un gol alla Germania Ovest (quella non comunista), ecco, non so, mi sembra un po' coglione. E lo dico nell'anniversario della caduta del Muro di Berlino, quello che avevano fatto erigere i comunisti della Germania Est (gli amici di Piccolo, si suppone) per proteggere il loro paradiso dagli invasori fascisti della Germania Ovest (era così, no?). Era il due a zero, si vede.
P.S. Per chi non lo sapesse Sparwasser, quello del gol che piacque tanto a Piccolo, un anno prima che il paradiso aprisse le sue porte, scappó all'inferno. Mi sa che il libro non lo compro.

6 nov 2013

Polonio mon amour. Le sostanze chimiche in sé non sono né buone né cattive. Dipende dall'uso che ne fai.
I bambini dell'asilo stanno facendo casino. Di passaggi rilevanti nelle Memorie di Raymond Aron ce ne sono diversi, come è facile immaginare. Ma la sobrietà e schiettezza con cui riduce il magnificato '68 francese ad un fenomeno marginale e del tutto privo di trascendenza storica sono veramente straordinarie.
Due velocità. Quella del treno che collega San Pietroburgo a Mosca e quella dei villaggi che attraversa.
Hot Dog Sisi. Pare che in Egitto il comandante in capo sia un po' dappertutto.
Stronzi ma civili (o viceversa)/2. Io il libro di Francesco Piccolo è difficile che lo legga, perché confesso qualche pregiudizio di fronte all'associazione degli aggettivi comunista, civile e moderno nella stessa frase, ma è un problema mio, lo so. Problema tutto di Piccolo sarà invece superare indenne la recensione di Luca Sofri, la cui prosa si fa di settimana in settimana sempre più inintelligibile. L'ho già detto altre volte: secondo me chi scrive difficile è perché pensa confuso.