27 nov 2008

Lasciate ogni speranza.



Quello che più mi colpisce delle cronache da Bombay sono le immagini, oscure, tetre, fumose, pesanti. L'inferno dev'essere così.
Il rebus thailandese/3. Il punto della situazione, prima della dichiarazione dello stato di emergenza negli aeroporti. Sarà una lunga notte a Bangkok.
Anche sul Foglio online (solo a pagamento).




Un'opposizione di piazza che cerca l'anarchia, un governo che si arrocca sulle sue posizioni ma ha le mani legate, un re che non si pronuncia, un esercito che chiede elezioni: la Thailandia si risveglia immersa in una impasse socio-istituzionale da incubo mentre Bangkok è di fatto tagliata fuori da tutti i collegamenti internazionali. Con l'occupazione dei due aeroporti della capitale da parte di migliaia di manifestanti del PAD (People's Alliance for Democracy) si è probabilmente raggiunto il punto di non ritorno nella lunga contesa che oppone il movimento del magnate dei media Sondhi Limthongkul alla maggioranza del PPP (People Power Party) attualmente al potere, la formazione politica in cui sono confluiti i seguaci dell'ex premier Thaksin Shinawatra dopo il golpe militare che lo depose nel 2006. Ed è proprio dai carri armati nelle strade di Bangkok che conviene partire per provare a districare la complicata matassa della crisi thailandese: l'attuale instabilità infatti è soprattutto figlia di un anno e mezzo di amministrazione militare che, lungi dal restituire ai successori un paese rimesso a nuovo, ha invece contribuito ad incancrenire i problemi e a ritardare la resa dei conti. Tanto è vero che, quando i thailandesi sono tornati alle urne lo scorso dicembre sotto una nuova costituzione, hanno riconsegnato il paese agli uomini di Thaksin, nel frattempo convertitosi in presidente del Manchester City dal suo esilio londinese. L'opposizione non ha mai accettato il risultato di quel voto, accusando il nuovo premier Samak di essere solo un portavoce del suo influente predecessore. Da qui una serie di manifestazioni di piazza quasi quotidiane, in una continua escalation culminata nell'occupazione degli edifici governativi a fine agosto. A settembre scontri tra fazioni anti e filo-governative imponevano il massiccio intervento delle forze dell'ordine a Bangkok, ma la dichiarazione dello stato d'emergenza da parte di Samak non veniva portata alle estreme conseguenze per il rifiuto del capo dell'esercito, il generale Anupong, di usare la forza contro i manifestanti. Poi ad inizio ottobre un primo tentativo di blocco del parlamento, con l'intervento della polizia, il lancio di lacrimogeni e un morto tra le file dell'opposizione, il primo martire da annoverare e commemorare. Intanto Samak era stato costretto alle dimissioni da un giudiziario sempre più intraprendente che aveva dichiarato l'incompatibilità della sua carica di primo ministro con la presenza in un programma televisivo di cucina (sic!). Al suo posto Somchai, cognato dello stesso Thaksin, il quale aveva avuto il tempo di tornare trionfalmente in patria solo per essere processato e condannato per corruzione insieme alla moglie. Adesso è in cerca di un paese che gli dia asilo, come ricercato dalla giustizia del suo paese.
In un comunicato diffuso ieri dalla torre di controllo dell'aeroporto internazionale di Bangkok il PAD ha annunciato che non si fermerà fino alle dimissioni di un esecutivo "corrotto", responsabile - a suo dire - di ogni infamia: dal tentativo di riscrivere la costituzione per favorire il ritorno al potere di Thaksin, alla manipolazione dei media, alla violazione dei diritti umani, all'insulto alle istituzioni monarchiche. Ma è un errore pensare a quello in atto come ad uno scontro tra un governo autoritario e un'opposizione democratica che rivendica diritti politici. Piuttosto la situazione va letta come una prova di forza tra un'élite populista che ha saputo canalizzare ed utilizzare il malcontento degli strati meno abbienti della popolazione per installarsi al potere ed una combinazione di gruppi di interesse che si considerano i depositari della tradizione politica thailandese e che vedono come un'usurpazione l'ascesa e i successi dei Thaksin-boys. Le parole d'ordine del PAD - la cui base sociale è formata dalle classi urbane, conservatrici, filo-monarchiche e vicine all'esercito - hanno ben poco a che vedere con la rappresentanza democratica: i suoi leaders sono anzi fautori della nomina corporativa di parte dei seggi parlamentari e denunciano apertamente che le classi popolari non sono preparate per decidere il corso politico della nazione. Dal canto suo Thaksin, elevatosi a difensore dei deboli, è un magnate delle comunicazioni con interessi trasversali all'interno dell'arco politico ed economico del paese. Difficilmente etichettabile ideologicamente, rappresenta bene l'essenza di un peronismo in salsa asiatica anch'esso a-liberale se non illiberale, in grado comunque di restituire una speranza alla Thailandia rurale e operaia che, durante il suo mandato quinquennale, ha beneficiato dei programmi sociali del governo.
In questo scenario da lotta di classe, con un paese paralizzato economicamente e istituzionalmente e i primi scontri armati tra fazioni contrapposte nelle strade della capitale, si inserisce il pronunciamento politico del generale Anupong che ha chiesto all'esecutivo di sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni e al movimento di protesta di sgomberare gli aeroporti. Una soluzione di compromesso che respinge al mittente, almeno per ora, gli inviti più o meno esplitici ad un nuovo golpe (sarebbe il diciannovesimo) provenienti da importanti settori anti-governativi, ma che allo stesso tempo non risolve lo stallo. Il premier Somchai ha fatto sapere che non se parla nemmeno, che la maggioranza è legittimata dal voto popolare e che continuerà a lavorare fino all'ultimo: in sostanza, se l'esercito vuole dare ordini sa cosa deve fare. Il PAD è sulla stessa linea ma per motivi opposti: la fine della legislatura non cambierebbe le cose e l'obiettivo resta la caduta del governo senza compromessi. Il paradosso è che l'opposizione sa che un ritorno alle urne sancirebbe una probabile riconferma del partito di governo, che continua a godere di un consenso piuttosto ampio proprio mentre l'appeal della protesta va scemando a causa dei suoi eccessi. Il PAD è quindi costretto a sperare in un intervento di quelle forze armate che teoricamente dovrebbero rimanere fedeli all'esecutivo: la strategia del caos è funzionale a questo obiettivo.
A togliere di mezzo il PPP e ad aprire la strada ad un cambio al vertice potrebbe pensarci però la Corte Suprema, che nei prossimi giorni è chiamata ad un verdetto sulle irregolarità di cui si sarebbero resi protagonisti alcuni parlamentari in campagna elettorale. Se convalidata, la pronuncia di colpevolezza porterebbe allo scioglimento di tutto il partito (e di conseguenza alla caduta del governo) e alla nomina da parte dei giudici di un Consiglio Supremo facente le funzioni dell'esecutivo. Ma sia un golpe sia una decisione sfavorevole delle massime istanze giudiziarie sarebbero interpretati dallo schieramento pro-Thaksin come un sopruso e scatenerebbero una contro-reazione di piazza dalle conseguenze imprevedibili. Il PAD può solo ottenere una vittoria di Pirro in un paese spaccato dalla sua stessa irresponsabile condotta.

26 nov 2008

Il rebus thailandese/2.



Oggi è successo di tutto, tanto che se n'è accorta perfino Repubblica. La giornata si è aperta con il blocco totale dell'aeroporto di Bangkok, uno dei più importanti snodi di tutta l'Asia, da parte dei manifestanti del PAD (Alleanza Popolare per la Democrazia). La Thailandia è simbolicamente tagliata fuori dai collegamenti con il resto del mondo al punto che anche il primo ministro di ritorno dal Perù ha dovuto atterrare a Chiang Mai. Il PAD, che ricordiamolo non è un partito politico ma un movimento di opposizione extra-parlamentare, ha diffuso un comunicato tanto solenne quanto velleitario in cui dichiara i motivi della protesta, rivendica la sua natura noviolenta (tutti hanno visto però un suo membro sparare ieri tra la folla) e accusa il governo di ogni misfatto. Chiede scusa per gli inconvenienti che le sue azioni potrebbero causare alla popolazione, un tentativo evidente di ingraziarsi un'opinione pubblica sempre più perplessa per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti. Tra questi inconvenienti sono forse da annoverare anche le cinque bombe esplose in diversi punti della capitale nelle prime ore della mattinata: i capi ovviamente negano qualunque responsabilità. Poi nel pomeriggio è arrivato il pronunciamento dei militari, nella persona del capo delle forze armate Gen. Anupong il quale ha suggerito (o intimato) al governo di farsi da parte e di convocare nuove elezioni (che i seguaci di Thaksin comunque rivincerebbero). La replica dell'esecutivo è stata che non se parla nemmeno, che la maggioranza è legittimata dal voto popolare e che continuerà a lavorare fino all'ultimo. Questi i fatti, adesso qualche opinione in ordine sparso:
- il governo non è senza peccato ma nella fattispecie ha ragione. Se si instaura il precedente per cui un esecutivo legittimato dalle urne può essere rovesciato da un golpe di popolo, per le già fragili democrazie del sud-est asiatico è finita;
- il sospetto che le azioni sempre più eclatanti del PAD siano il risultato di una collaborazione piuttosto stretta con l'esercito si fa sempre più forte: l'aeroporto è una installazione cruciale per la sicurezza nazionale e l'esercito lo pattuglia regolarmente. Come è possibile che migliaia di militanti in giallo siano entrati così facilmente e si siano addirittura impossessati della torre di controllo?
- il pericolo di guerra civile questa volta è alto per una serie di motivi: lo scontro sta chiaramente dividendo la società thailandese in classi contrapposte, da una parte (semplificando) i poveri con il PPP, dall'altra i ricchi con il PAD; entrambe la fazioni sono armate; un governo post-golpe appoggiato dai militari sarebbe visto, più che in passato, come la nemesi del precedente e la maggioranza della popolazione si considererebbe (a torto o a ragione) a rischio ritorsione; sia un golpe, sia una decisione delle massime istanze giudiziarie contro il partito attualmente al potere sarebbero interpretati dal PPP come un sopruso intollerabile e scatenerebbero una contro-reazione di piazza dalle conseguenze imprevedibili. Insomma, il rebus thailandese sta diventando un problema serio.

25 nov 2008

Il rebus thailandese.



Negli ultimi due giorni l'opposizione del PAD (People Alliance for Democracy) ha nell'ordine: bloccato il parlamento, convocato uno sciopero generale, assediato l'aeroporto provocando la sospensione dei voli e cominciato una guerriglia urbana con tanto di armi da fuoco. Eppure la sua protesta va perdendo peso e stancando l'opinione pubblica. Non è una battaglia tra forze democratiche e una classe politica arroccata al potere: è lo scontro tra una élite provvisoriamente senza governo e un governo provvisoriamente senza élites. Da una parte professionisti, filo-monarchici, amici dei militari e fautori del corporativismo parlamentare (il PAD), dall'altra i prestanome di Thaksin (che cerca asilo all'estero) e la Thailanda rurale e proletaria che si riconosce nel peronismo in salsa asiatica di un magnate delle comunicazioni.
Precedenti articoli:
Thailandia, un copione gattopardesco
;
Thailandia, il ritorno dell'uomo della provvidenza
;
tutti i post
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22 nov 2008

Lascio alla vostra intepretazione.



Vista su Facebook.

21 nov 2008

Birmania. L'annientamento di una generazione. Come detto era solo l'inizio. Zarganar, attore e attivista, aveva raccolto fondi per aiutare le vittime del Nargis. L'hanno prevelato da casa sua prima dell'estate, se già far ridere è pericoloso, aiutare la povera gente è imperdonabile. La sentenza è un macigno: 45 anni. Ashin Gambira (U Gambira), il monaco che guidò al protesta: condannato a 12 anni tre giorni fa, ha avuto il resto oggi, ne passerà 68 dietro le sbarre, la pena più lunga comminata fino ad ora. Altri trenta tra monaci, membri della Generazione dell'88 e attivisti a vario titolo hanno ricevuto verdetti tra tre e ventinove anni.
One of Zarganar’s associates, Zaw Thet Htwe, who helped him deliver aid to cyclone survivors, received a sentence of 15 years imprisonment. Another associate,
Tin Maung Aye, was sentenced to 29 years imprisonment and a third, Thant Zin Aung, received 15 years imprisonment.
The trials of Zarganar, Zaw Thet Htwe and Thant Zin Aung are still proceeding, and the court is expected to pronounce further sentences on them next week.
Thirteen members of the 88 Generation Students group received prison sentences ranging from three to five years on Friday and they are also expected to face further sentences next week, sources said. 
Five Buddhist monks were among a further eleven regime opponents who were also sentenced to prison terms on Friday, prison sources said. All took part in the September 2007 uprising.
Dallo scorso 10 novembre la macchina delle sentenze è inarrestabile. L'opposizione, quel che ne restava, è annientata dai tribunali segreti allestiti nelle prigioni del paese. Sta succedendo in Birmania qualcosa di spaventoso, anche se il resto del mondo sembra non accorgersene. Un'intera generazione cancellata dalla scena politica e civile, famiglie smembrate:
A court in military-ruled Myanmar sentenced a student activist to 6 1/2 years in jail on Wednesday, a week after his father received a 65-year prison term for his own political activities and a decade after his grandfather died in custody.
Al di là delle solite patetiche dichiarazioni di circostanza delle cancellerie occidentali, questo massacro di diritto e di dignità non sembra davvero smuovere le coscienze di chi potrebbe agire. L'attuale presidente del Consiglio di Sicurezza ONU ha fatto sapere che ad oggi nessun membro ha sollecitato un dibattito sul problema:
"I have not heard any delegation asking for a briefing on [the Burma] issue, but as you know, in the Council very often new initiatives come almost every day," Urbina said.
An Asian diplomat told The Irrawaddy that none of the 15 members, including the US, Britain and France, had officially or unofficially tried to raise the issue inside the Security Council.
Quanto agli altri, sono tutti così preoccupati di perdere anche quel minimo di collaborazione ottenuta dalla giunta sui soccorsi post-Nargis (dopo un mese di blocco criminale degli aiuti) da preferire il silenzio complice alla denuncia. Si è creata una situazione paradossale ma perfettamente in linea con le consuetudini della comunità onusiana e gruppi nongovernativi annessi:
It may be one of the greatest ironies of the Nargis tragedy that it has bestowed upon the junta the very air of legitimacy that the generals have long sought. Simply by ceasing to be as obstructive as they were during the first month after the disaster, they have suddenly been elevated to the status of responsible players on the world stage.
And now, as a further, and even more perverse, irony, it seems that the generals have been emboldened by this “partnership” to believe that it entitles them to treat their opponents any way they please.
Ovviamente aiuta i codardi il fatto che il sangue stavolta non macchi le strade di Rangoon ma solo i muri delle prigioni in cui sono confinate migliaia di vittime innocenti:
Min Zaya was transferred to Lashio Prison in Shan State, Zaw Zaw Min to Toungoo Prison in Pegu Division, Jimmy to Taunggyi Prison in Shan State, Arnt Bwe Kyaw to Katha Prison in Sagaing Division, Than Tin to Sittwe Prison in Arakan State, Panneik Tun to Bahmao Prison in Kachin State, Kyaw Kyaw Htwe to Mergui Prison in Tenasserim Division and That Zaw to Moulmein Prison in Mon State.
Of the convicted women members of the 88 Generation Students group, Mar Mar Oo was transferred to Myingyan Prison in Mandalay Division, Thet Thet Aung to Thayawaddy Prison in Pegu Division, Mie Mie to Bassein Prison in Irrawaddy Division and Sandar Min to Myaung Mya Prison in Irrawaddy Division.
Two members of the Bogalay Township NPD were also transferred to outlying prisons. Thiha Aung was transferred to Lowikaw Prison in Karenni State and Aung Myo Paing to Kawthaung Prison in Tenasserim Division respectively.
One further activist, Min Han, was transferred to Lashio Prison in Shan State.
Che palle questo con 'sta Birmania... no?

19 nov 2008

Tibet. Una necessaria introspezione.



A Dharamsala, la località indiana sede del governo tibetano in esilio, si sta svolgendo in questi giorni una riunione senza precedenti. Circa 500 attivisti, leaders politici e spirituali della diaspora si sono dati appuntamento per mandare in pensione il Dalai Lama. Detta così può sembrare una follia ma, anche a voler sfumare un poco, il fatto è che al centro del dibattito c'è l'opportunità o meno di proseguire su quella Via di Mezzo indicata da Tenzin Gyatzo che, per decenni, ha costituito l'unica direzione di marcia dei tibetani nelle relazioni con il governo cinese. Dal punto di vista strettamente politico la Via di Mezzo è la scelta dell'autonomia territoriale anziché dell'indipendenza; ma sotto un profilo più ampio è anche la ricerca costante del compromesso e del dialogo con l'occupante cinese. Una strategia che, dati alla mano, non ha prodotto nessun risultato concreto per la popolazione tibetana ed ha anzi portato ad un intensificarsi della repressione e ad una cinesizzazione sempre più marcata della regione. Lo stesso Dalai Lama, la settimana scorsa, ha espresso per la prima volta - e certamente in ritardo - una personale frustrazione per l'assenza di progressi nelle relazioni bilaterali e per la continua campagna di annichilimento culturale orchestrata da Pechino. Da qui la riunione dei cinquecento e la possibilità di confrontarsi per la prima volta sulle prospettive della lotta dei tibetani per i loro diritti. Il Dalai Lama non ci sarà e probabilmente è un bene. La sua figura e la sua predicazione non violenta, così apprezzate in occidente, sono diventate alla lunga un ostacolo per le rivendicazioni di un popolo oppresso. Tanto è vero che l'ala più “radicale” - come viene comunemente battezzata dai media - del Tibetan Youth Congress spinge già da tempo per una politica meno conciliante nei confronti delle autorità cinesi, che hanno dimostrato di saper sfruttare molto bene le debolezze della controparte, fingendo aperture di facciata e usando il bastone della repressione quando la situazione lo ha richiesto. E' successo l'ultima volta lo scorso marzo, quando l'insoddisfazione accumulata in questi decenni ha trovato sfogo in una rivolta urbana in cui sono stati proprio i più giovani a rompere le righe della disciplina imposta da Pechino. Proprio quell'esperienza, ancora un volta stroncata sul nascere, ha provocato una brusca accelerazione degli eventi. La linea del Dalai Lama è apparsa improvvisamente superata dalla storia e l'assemblea in corso costituisce già di per sé, a prescindere dalle deliberazioni finali, un primo passo verso la sua revisione.
Il grande assente, osservano alcuni, è però il popolo tibetano. I partecipanti provengono tutti dall'esilio e non è detto che rappresentino fino in fondo le voci di chi sotto il giogo cinese continua a viverci. La Cina, noto campione di rappresentatività popolare, ha quindi buon gioco nello sminuire il significato dell'evento, dichiarando che i presenti a Dharamsala non parlano certo a nome della maggioranza dei tibetani. Il Partito Comunista Cinese dimostra però di non credere alle sue stesse parole quando minaccia l'assemblea, facendo sapere che qualsiasi svolta indipendentista sarebbe destinata al fallimento. E proprio sui tibetani ricadrebbero le conseguenze politiche e militari di un'eventuale radicalizzazione delle posizioni. Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo dell'esilio, ricorda che l'ultima decisione spetterà comunque al parlamento. Altri però spostano il focus del dibattito oltre la questione autonomia-indipendenza: il portavoce Thupten Samphel fa sapere che il meeting "non è stato convocato per decidere la separazione del Tibet dalla Cina ma per recuperare i diritti umani dei tibetani in Tibet". E' qui che si gioca il futuro della causa tibetana: spostare semplicemente la lotta verso l'obiettivo dell’indipendenza consentirebbe a Pechino di presentare la regione autonoma come un focolaio di separatismo e terrorismo, come sta avvenendo per lo Xinjiang; mettere invece il rispetto dei diritti umani al centro di ogni rivendicazione politica, oltre ad essere una posizione moralmente superiore, farebbe immediatamente pendere l'ago della bilancia dalla parte dei tibetani contribuendo ad evidenziare la vera natura della presenza cinese in Tibet anche agli occhi della pigra diplomazia internazionale. Difficile comunque che dalla settimana di dibattiti a Dharamsala emergano figure di spicco in grado di sostituire la storica guida spirituale, almeno a breve termine. Quel che è certo però è che l'epoca e l'epica del Dalai Lama come leader politico sembrano ormai al capolinea.
Anche su Il Foglio online (solo a pagamento).

P.S. Scrivevo qualche mese fa su Ideazione:

Anche se forse non preludono ad una spaccatura netta, le posizioni dei cosiddetti “radicali”, quelli che puntano ad alzare il profilo della contestazione anti-coloniale, segnalano certamente un disagio all’interno del movimento. Non è solo la contrapposizione fra richieste di autonomia e aspirazioni all’indipendenza a dividere vecchie e nuove generazioni, ma soprattutto la necessità di una risposta seria alla domanda che pochissimi finora hanno osato formulare: quale risultato concreto, quale miglioramento reale nelle vite di milioni di tibetani ha prodotto mezzo secolo di “moderazione” e di “compromesso” nei confronti di un potere che non ha esitato a compiere – per usare le parole dello stesso Dalai Lama – un vero e proprio genocidio culturale? Se è vero che l’obiettivo di Tenzin Gyatso è “la ricerca della verità” a lungo termine e che l’insegnamento dei maestri buddhisti considera la lotta tra il bene e il male come una condizione permanente (cfr. intervista a Carlo Buldrini su Ideazione del 26 marzo scorso), sarebbe peraltro miope non riconoscere nella sofferenza di questo popolo una richiesta di aiuto non più rinviabile. A voler essere cinici, la storia dei due Tibet è purtroppo anche l'interminabile cronaca di un fallimento.
Alla luce degli attuali avvenimenti sembra che non fossi così lontano dalla realtà.

18 nov 2008

Birmania. Sangue su sangue.



Oggi è stata la volta di Ashin Gambira (più noto come U Gambira), non ancora trentenne, uno degli esponenti principali della protesta dei monaci che in lui avevano trovato una guida politica. Nascostosi per settimane dopo la repressione, è stato scoperto ed arrestato insieme al padre lo scorso novembre. Gli hanno dato dodici anni ma è solo la prima di una lunga serie di sentenze che lo attendono. Con lui altri compagni di sventura.

Ashin Gambira, one of the organizers of a monk-led uprising that captured international headlines last year, was sentenced to 12 years imprisonment on Tuesday by a special court convened behind closed doors at Rangoon’s Insein Prison.

Intelligence agents arrested Ashin Gambira along with his father last November while he was hiding in Sintgaing Township, Mandalay Division. The authorities later forcibly disrobed him without consulting with the Buddhist monastic community, which alone has the authority to expel monks.

Besides Ashin Gambira, at least four other people received lengthy sentences today for their involvement in the protests, including fellow monk U Kaylar Tha from Mandalay Township, who was sentenced to 35 years imprisonment by the Kyimyindaing Township special court in Insein prison.

Three ethnic activists were also sentenced today in connection with the monk-led protests. Ethnic Arakanese protester Tin Htoo Aung and Chin activist Kam Lat Hkoat were sentenced to 33 years imprisonment each, while another Chin activist, Kat Hkant Kwal, was given an eight-year sentence
Chi è U Gambira e perché la sua figura è così importante. Pochi giorni fa la rivista dell'esilio Mizzima gli aveva dedicato questo commosso editoriale.

La Birmania sta morendo dissanguata. Lo sapete, no?
.
Lavori in corso. Immagini da una presidenza che verrà.



Foto bellissima e scelta pericolosissima (quella di Hillary agli esteri): l'Economist spiega perché.

7 nov 2008

Un quattro novembre americano.



Obama, dopo la vittoria.
McCain, dopo la sconfitta.
L'America, davanti a tutti. Irraggiungibile.



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