Rivolta d'Egitto. Il pezzo che segue lo scrissi invece lo scorso febbraio al margine di questo blog. Vedete voi.
Non tragga in inganno il titolo: vorrei tanto essere ottimista sull’evoluzione degli eventi in Egitto, dopo la rivolta popolare che ha disarcionato Mubarak. In fondo una rivoluzione democratica nel cuore del mondo arabo (se non geograficamente, almeno concettualmente) è quello che molti auspicavamo, fin dall’inizio della seconda guerra del Golfo, nel 2003. Oltretutto il precedente tunisino – ancora in divenire – lasciava ben sperare che quella egiziana fosse la seconda tappa di un percorso di riscatto totalmente autoctono, dopo le guerre di liberazione eterodirette in Iraq e Afghanistan. E in parte lo è stata, se si considera che quel che è successo nei 18 giorni di Piazza Tahrir difficilmente potrà essere cancellato dalla coscienza collettiva di un popolo che, per la prima volta, ha rivendicato in massa la propria dignità ottenendo certamente un risultato significativo. Sono invece gli esiti di questa rivolta che lasciano spazio a più di un dubbio e che consigliano cautela prima di parlare di democrazia, un termine utilizzato troppe volte e con troppo anticipo dai commentatori occidentali durante la protesta, spesso servendosi di accostamenti storici del tutto fuori luogo (uno su tutti quello con l’89). Non è tanto la pur comprensibile preoccupazione per il ruolo e le intenzioni dei Fratelli Musulmani ad imporre prudenza, quanto la sensazione di golpe morbido che lascia la piazza, una volta svuotata e ripulita. Che l’esercito abbia preso il potere dopo aver giocato abilmente di sponda tra Mubarak e i manifestanti è forse l’unica certezza che in questo momento si può ricavare dalla situazione egiziana. Una giunta militare di transizione, provvisoria, incaricata di gestire il passaggio ad un sistema parlamentare: questi sono i messaggi che arrivano da Il Cairo, gli unici in grado di placare la popolazione. E forse fra sei mesi celebreremo davvero l’alba democratica del nuovo Egitto. Ma intanto i primi provvedimenti dei nuovi responsabili dell’ordine pubblico sono stati sciogliere il parlamento (la cui composizione era peraltro fortemente inficiata dai brogli del regime) e sospendere la costituzione, in quella che sembra una continuazione seppur sotto forme diverse dello stato d’emergenza imposto nel 1967 e costantemente rinnovato a partire dal 1981. Per me la chiave di interpretazione di quel che è stato (e probabilmente di quel che sarà) sta in due articoli pubblicati nei giorni scorsi dalla rivista Foreign Affairs. Nel primo, a firma di Joshua Stacher, scritto prima che Mubarak abdicasse ma ancora valido nelle conclusioni, si nota come il regime sia stato abile a incanalare la protesta attraverso uno sdoppiamento tattico della propria immagine: da una parte generando violenza contro i manifestanti e dall’altra accreditandosi, attraverso l’esercito, come garante della loro sicurezza. Una sorta di trappola che non poteva che condurre ad una istituzionalizzazione del ruolo delle forze armate, come unica entità credibile del dopo-Mubarak. In quest’ottica il potere costituito, messo in discussione dalla piazza, ha lasciato spazio ad una forma più sofisticata e vendibile di autoritarismo, incarnato dai generali. Nel secondo, di Ellis Goldberg, ci si sofferma sulle reali possibilità di una transizione democratica gestita dai militari, analizzando gli interessi e le influenze dell’esercito in ambito politico ed economico ed i potenziali vantaggi/svantaggi che le forze armate trarrebbero da una repubblica parlamentare. In entrambi i casi la conclusione non invita all’ottimismo: più che a una reale svolta democratica, l’analisi della storia e dell’attualità egiziane farebbe pensare ad un nuovo modello autoritario destinato ad assicurare la continuità di quella struttura di potere che la rivoluzione pretenderebbe di aver cancellato una volta per tutte. Un mubarakismo senza Mubarak, appunto. La situazione è fluida e il finale di questa vicenda resta tutto da scrivere. Conviene però tenere gli occhi ben aperti e non cantare vittoria prima del tempo: l’Egitto non ha tradizioni democratiche da cui ripartire e i gattopardi sono sempre in agguato.
Non tragga in inganno il titolo: vorrei tanto essere ottimista sull’evoluzione degli eventi in Egitto, dopo la rivolta popolare che ha disarcionato Mubarak. In fondo una rivoluzione democratica nel cuore del mondo arabo (se non geograficamente, almeno concettualmente) è quello che molti auspicavamo, fin dall’inizio della seconda guerra del Golfo, nel 2003. Oltretutto il precedente tunisino – ancora in divenire – lasciava ben sperare che quella egiziana fosse la seconda tappa di un percorso di riscatto totalmente autoctono, dopo le guerre di liberazione eterodirette in Iraq e Afghanistan. E in parte lo è stata, se si considera che quel che è successo nei 18 giorni di Piazza Tahrir difficilmente potrà essere cancellato dalla coscienza collettiva di un popolo che, per la prima volta, ha rivendicato in massa la propria dignità ottenendo certamente un risultato significativo. Sono invece gli esiti di questa rivolta che lasciano spazio a più di un dubbio e che consigliano cautela prima di parlare di democrazia, un termine utilizzato troppe volte e con troppo anticipo dai commentatori occidentali durante la protesta, spesso servendosi di accostamenti storici del tutto fuori luogo (uno su tutti quello con l’89). Non è tanto la pur comprensibile preoccupazione per il ruolo e le intenzioni dei Fratelli Musulmani ad imporre prudenza, quanto la sensazione di golpe morbido che lascia la piazza, una volta svuotata e ripulita. Che l’esercito abbia preso il potere dopo aver giocato abilmente di sponda tra Mubarak e i manifestanti è forse l’unica certezza che in questo momento si può ricavare dalla situazione egiziana. Una giunta militare di transizione, provvisoria, incaricata di gestire il passaggio ad un sistema parlamentare: questi sono i messaggi che arrivano da Il Cairo, gli unici in grado di placare la popolazione. E forse fra sei mesi celebreremo davvero l’alba democratica del nuovo Egitto. Ma intanto i primi provvedimenti dei nuovi responsabili dell’ordine pubblico sono stati sciogliere il parlamento (la cui composizione era peraltro fortemente inficiata dai brogli del regime) e sospendere la costituzione, in quella che sembra una continuazione seppur sotto forme diverse dello stato d’emergenza imposto nel 1967 e costantemente rinnovato a partire dal 1981. Per me la chiave di interpretazione di quel che è stato (e probabilmente di quel che sarà) sta in due articoli pubblicati nei giorni scorsi dalla rivista Foreign Affairs. Nel primo, a firma di Joshua Stacher, scritto prima che Mubarak abdicasse ma ancora valido nelle conclusioni, si nota come il regime sia stato abile a incanalare la protesta attraverso uno sdoppiamento tattico della propria immagine: da una parte generando violenza contro i manifestanti e dall’altra accreditandosi, attraverso l’esercito, come garante della loro sicurezza. Una sorta di trappola che non poteva che condurre ad una istituzionalizzazione del ruolo delle forze armate, come unica entità credibile del dopo-Mubarak. In quest’ottica il potere costituito, messo in discussione dalla piazza, ha lasciato spazio ad una forma più sofisticata e vendibile di autoritarismo, incarnato dai generali. Nel secondo, di Ellis Goldberg, ci si sofferma sulle reali possibilità di una transizione democratica gestita dai militari, analizzando gli interessi e le influenze dell’esercito in ambito politico ed economico ed i potenziali vantaggi/svantaggi che le forze armate trarrebbero da una repubblica parlamentare. In entrambi i casi la conclusione non invita all’ottimismo: più che a una reale svolta democratica, l’analisi della storia e dell’attualità egiziane farebbe pensare ad un nuovo modello autoritario destinato ad assicurare la continuità di quella struttura di potere che la rivoluzione pretenderebbe di aver cancellato una volta per tutte. Un mubarakismo senza Mubarak, appunto. La situazione è fluida e il finale di questa vicenda resta tutto da scrivere. Conviene però tenere gli occhi ben aperti e non cantare vittoria prima del tempo: l’Egitto non ha tradizioni democratiche da cui ripartire e i gattopardi sono sempre in agguato.
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