30 dic 2011

Ron Paul è un idiota. E questo è tutto quel che avevo da dire su quell'idiota di Ron Paul.

19 dic 2011

In morte del Caro Leader/2.

It is a depressing thing to see a man who caused so much death and misery die untried and unpunished. It makes me want to believe that there is a hell, other than the one thatNorth Korea itself became because of Kim Jong Il’s necrocratic misrule. Here is a man who belongs alongside Pol Pot as one of the most destructive men who ever lived, one who would belong in the same category as Hitler or Stalin if he had ruled a country with a larger population or GDP. The legacy of Kim Jong Il will be of the millions he starved for his own profligacy and megalomania, and of the hundreds of thousands more who perished in the cruelest system of prison camps on this earth since Stalin died in 1953. When men like this die in their beds, the very idea of justice dies a little, too.


Kim Jong-il, la bestia contro l'uomo.

18 dic 2011

Vaclav Havel, l'uomo contro la bestia.

16 dic 2011

La verità, vi prego, sui palestinesi. L'ha detta Newt Gingrich, secondo Caroline Glick. E infatti le ha prese da tutte le parti.
Come lavorano al Post. Per chi scambiasse ancora per giornalismo il lavoro di traduzione e copiatura di Sofri e compagnia, ecco un esempio eclatante di disonestà intellettuale. Oggi Il Post pubblica un bell'articolo sulla genesi storica e politica della Siria attuale. Documentato, chiaro, con notizie non proprio all'ordine del giorno per il grande pubblico. Bravi. Il pezzo non è firmato, come spesso capita. Sarà un lavoro collettivo, uno pensa. Avranno raccolto un sacco di documenti da diverse fonti e li avranno condensati in un sunto ben riuscito. Capita però che un lettore più sveglio di altri noti una curiosa somiglianza con un post pubblicato sul blog di Adam Curtis nel giugno scorso. Giudicate voi. Riferimenti storici, nomi, circostanze. Stessa ricostruzione, stessa scelta degli avvenimenti da rimarcare, diversa solo l'impostazione del pezzo. Insomma, un riassunto del riassunto di un blogger/giornalista, non una collazione di fonti di varia estrazione. Niente di male, si dirà. I ragazzi leggono e riportano. Il problema è che non riportano, anzi si guardano bene dal citare la fonte. Se non fosse per il lettore sveglio, nessuno se ne accorgerebbe. Figurarsi, chi legge i blog della BBC? E poi l'articolo è di giugno, ormai se lo saranno scordato tutti. E così, per magia, la dettagliata ricostruzione di Curtis diventa il riassuntino del Post. Senza firma, senza citazione della fonte, senza collegamenti ad altre pagine (proprio come nell'originale), ma anche senza immagini o filmati (diversamente dall'originale), ché qualcuno potrebbe mangiare la foglia. Il sofrismo allo stato puro. Un bluff.
Hitchens, al completo. Slate, Vanity Fair, The Atlantic. E' sempre un bel leggere.
P.S. Diranno che era di sinistra, ma la sinistra non è mai stata così.
Il Cairo, oltre le barricate.




















 E' sua.

15 dic 2011

Liberalucoli. Lo dovevate sbranare vivo Monti. Sbranare.

12 dic 2011

Progressi(sticazzi). Quest'anno Christian Rocca ha smesso di fare il giornalista per diventare l'amico di tutti. Di tutti quelli che gli interessano, che frequentano le compagnie giuste, che si fanno l'aperitivo. Ha inventato anche la classifica dei direttori per far vedere che è del giro, una delle marchette più ridicole mai apparse in rete. Prima di questa, sul "formidabile" libro di Gianni Riotta, siciliano, direttore nato e ovviamente amico suo. Una volta Rocca descriveva l'America come nessuno. Oggi descrive solo se stesso.
Quest'anno Francesco Costa ha smesso di essere un giovane blogger dal potenziale brillante per mettersi al servizio del giornalismo da bere di Luca Sofri. Poi uno dice le cattive compagnie: prima Concita, poi Peter Pan. Farà certamente carriera, è siciliano anche lui a e sa scegliersi gli amici. Una volta era una persona disponibile, oggi ha imparato dal suo direttore a ignorare le critiche e a parlare solo con chi gli conviene. Un Rocca in sedicesimo, però ha cominciato prima.
Quest'anno Giovanni Fontana è andato a studiare a Londra. Dall'immersione è uscito convinto che la sinistra del XX secolo sia stata liberale, proprio come Rocca e Costa. Lo so, è incredibile, eppure. Da buon leninista da caverna qual è, nonostante il trucco, in questi dodici mesi è riuscito a scrivere tra le altre cose che uccidere un colono ebreo non è reato, che i gay andrebbero obbligati a dichiararsi e che Che Guevara non dovrebbe mai smettere di ispirare i giovani di sinistra, in quanto progressista, internazionalista e guerrafondaio. Totalitario no, che la sinistra è liberale una cifra.
Meno male che finisce l'anno.

9 dic 2011

Lo scandalo Monti. D'Alema candidamente confessa a La Stampa che, dietro il governo tecnico, c'è un'operazione dall'inconfondibile sapore politico, finalizzata a defenestrare Berlusconi.
Lei che ha sempre rivendicato il primato della politica non pensa che in questo caso la politica abbia abdicato al proprio ruolo rifugiandosi dietro un governo tecnico? Non sarebbe stato meglio andare alle elezioni?
«Guardi che l'alternativa non era tra governo tecnico o elezioni, ma tra governo tecnico o permanenza di Berlusconi. Se non si fosse concretizzata l'ipotesi di Monti, la maggioranza di centrodestra non si sarebbe sfarinata e noi avremmo ancora il Cavaliere a palazzo Chigi. Altro che politica morta… Si è trattato, al contrario, di una positiva operazione politica».
Benvenuti, come sempre aveva ragione chi aveva torto.
Approfitto della certificazione dell'ex presidente del consiglio per tornare brevemente sulle singolari modalità del recente cambio di governo, benedetto da Berlino, dalla sinistra e dai benpensanti di ogni estrazione. Ai critici del golpe morbido - tra i quali mi annovero - è stato fatto notare da più parti che l'Italia è una repubblica parlamentare, per cui gli elettori scelgono i loro rappresentanti alle camere e non i governi. Nessun vulnus deriverebbe quindi dalla nomina di un esecutivo di tecnici al posto di uno espressione (seppur indiretta) del voto popolare, in quanto la fiducia del parlamento sarebbe l'unica condizione richiesta perché un governo possa operare. Tutto vero, dal punto di vista della dottrina. Ma anche rimanendo sul piano strettamente formale e tralasciando per un momento le considerazioni politiche che l'avvicendamento Berlusconi-Monti implica (vedi D'Alema), c'è un passaggio che proprio non torna, e che è stato colpevolmente trascurato da chi ha deciso che, stavolta, il fine giustificava i mezzi.
Berlusconi entra al Quirinale da presidente del consiglio tra gli schiamazzi della piazza e le pressioni di palazzo e ne esce destituito. In nessun momento il parlamento - dove risiede la fonte di legittimità del governo - viene coinvolto. Non si ritiene necessario inscenare non dico una mozione di sfiducia ma nemmeno un pallido rituale dal quale emerga la perdita della maggioranza da parte dell'esecutivo di centrodestra. Improvvisamente della repubblica parlamentare non se ne ricorda più nessuno: né la folla vociante, né la sinistra plaudente che subito dopo si richiamerà ad essa per giustificare l'intronizzazione di Monti, né il presidente della repubblica, né la sempre attenta stampa nazionale, né le cancellerie europee. Berlusconi esce di scena come un Mubarak qualunque, rimosso, sollevato dai propri incarichi, politicamente eliminato dall'azione congiunta dell'asse Berlino-Parigi, del Quirinale e di un tumulto di piazza. Mancava l'esercito. Ora, capisco che le intemerate rozze degli indignados e la scarsa dimestichezza della sinistra con la pratica della democrazia possano contribuire a creare un po' di confusione, ma l'Italia non è l'Egitto e nello stato di diritto la forma è sostanza. I paladini della repubblica parlamentare farebbero bene a ricordarsene prima di dare il loro appoggio incondizionato a manovre che mettono in discussione proprio quei principi cui non esitano a richiamarsi quando fa loro comodo. Al di là delle simpatie o antipatie politiche e dell'opportunità o meno di accelerare la fine di Berlusconi, un precedente di questa natura meriterebbe riflessioni un po' meno superficiali di quelle che si sono lette ed ascoltate. Per le prossime volte, ché non si sa mai.

5 dic 2011

Tassati e contenti. E l'Italia è questa qua. Per dirla con Makkox: sinistra merda. E i liberali mosche.

3 dic 2011

Rivolta d'Egitto/2. Non c'è bisogno di attendere i risultati ufficiali del primo turno elettorale in Egitto per ricavarne alcune conferme sul futuro del paese e più in generale sulla cosiddetta primavera araba. La vittoria dei partiti islamici (al blocco dei Fratelli Musulmani sarebbe andato il 40% dei voti, ai salafiti circa il 20%) inquieta ma non può sorprendere, e forse occorre ripartire proprio da quell'ampia minoranza che ha preferito votare formazioni laiche in un contesto altamente confuso, in cui i militari governano le istituzioni e i musulmani la piazza.
Le parole sono importanti e allora partiamo dalla terminologia. Ne avevo già scritto qui, qualche anno fa, a proposito del quadro politico iraniano e delle definizioni che di esso forniva la stampa occidentale. L'uso del termine conservatore, per indicare gli islamisti, è del tutto fuorviate. Se è vero che i musulmani d'Egitto (nelle loro varie declinazioni) sono fautori della tradizione islamica nel campo della cultura e dei costumi, rispetto alla situazione politica assumono per contro una posizione di rottura più o meno netta con quanto li ha preceduti. In realtà i Fratelli Musulmani e ancora di più i salafiti non vogliono conservare un bel niente, semmai cambiare il più possibile in base alle loro credenze religiose e alla loro visione della società (semplifico). Se proprio vogliamo applicare definizioni proprie della nostra dottrina politica a situazioni così distanti sotto tutti i punti di vista, dovremmo dire che è l'esercito la forza conservatrice all'interno della società egiziana, in quanto si è dato l'obiettivo di mantenere le strutture di potere dell'ancien régime. Ma anche in questo caso si tratterebbe di un errore: l'esercito è l'erede della dittatura, non espressione di un blocco sociale conservatore che si esprime attraverso i meccanismi della rappresentanza parlamentare. Purtroppo la macchina inarrestabile del politicamente corretto continua a far danni e, siccome il termine conservatore richiama una nozione di destra che i media sono ben contenti di mettere alla berlina appena possono, ecco che come per magia gli islamisti radicali o i fondamentalisti diventano conservatori. Ma nel mondo arabo e in Iran la conservazione morale e quella politica sono concetti diversi, spesso antitetici. La pigrizia intellettuale e l'incapacità di contestualizzare sono invece gli unici concetti che il giornalismo occidentale sembra ormai capace di esprimere.
E veniamo al giudizio di valore sull'affermazione dei partiti islamici, in Egitto come in Tunisia e probabilmente in tutti i paesi arabi in cui si voterà. Non so se la professione di moderazione dei Fratelli Musulmani sia autentica. Visti il loro passato e le loro radici ideologiche c'è da dubitarne. E' certo però che, all'interno del blocco sociale da essi rappresentato, esistono sensibilità diverse rispetto a quel che deve essere l'Egitto post-Mubarak. Si va dagli integralisti ai pragmatici, basta leggere le dichiarazioni dei loro leaders o ascoltare le opinioni di chi li ha votati. Da qui ad assegnare loro la patente di democratici, ancora prima di conoscerne le reali intenzioni una volta raggiunti i vertici dello stato, o assimilarli all'AK Party di Erdogan, c'è un mondo. Però i riflessi condizionati di esperti e analisti occidentali sono già scattati e, complice anche la parallela affermazione degli estremisti - questi sì - salafiti, è cominciata l'operazione di sdoganamento dei Fratelli Musulmani, neanche fossero la Democrazia Cristiana. In realtà nessuno sa cosa succederà nei prossimi mesi e certamente non dipenderà solo dalle dinamiche interne della politica egiziana. E qui torniamo come sempre alla ritirata dell'occidente, abilmente capitanata da Washington. Mentre Obama fa l'albero di Natale alla Casa Bianca e spedisce la Clinton in Birmania a stringere la mano ai generali in borghese, la Turchia estende la sua influenza in medioriente, l'Iran e la Corea del Nord inviano consiglieri militari a supporto di Assad, il Qatar muove Al Jazeera e i suoi petroldollari per dirigere gli avvenimenti e navi russe navigano verso i porti siriani. Noi, from behind. Possibile che si sia passati in così pochi anni dall'attivismo pro-democracy più spinto al ruolo passivo di osservatori internazionali? Possibile che, senza manipolare in nessun modo la volontà del popolo egiziano, non si sia riusciti in questi mesi a spingere per il consolidamento di un fronte laico che potesse almeno provare a contrastare la marea montante dell'islamismo più o meno radicale? Possibile che i tentativi di nation building abbiano lasciato spazio a questo ostentato disinteresse per le sorti di un'area chiave del pianeta la cui trasformazione può ancora essere, se non eterodiretta, almeno coadiuvata?
Se il 60% degli elettori ha scelto l'islamismo nelle prime elezioni parzialmente libere della storia egiziana è anche perché anni di regime, di società chiusa, di amputazione del pensiero politico, hanno provocato una semplificazione estrema e la conseguente radicalizzazione del quadro politico. Fu la grande intuizione di Bush: appoggiare gli autocrati in funzione anti-fondamentalista produce alla lunga l'effetto contrario. Solo dove le opinioni possono circolare e confrontarsi nascono opzioni diverse per i cittadini e le idee fanatiche perdono consistenza. Per questo credo che, anche se il risultato può non piacerci, valga comunque la pena scommettere sulla democrazia, per quanto embrionale, per quanto imperfetta: nell'Egitto dei Fratelli Musulmani come nella Palestina di Hamas. Dobbiamo considerare quanto sta avvenendo nei paesi arabi come la prima ondata di un cambiamento che richiederà diverse generazioni per compiersi. Se la dittatura ha lasciato spazio agli islamisti, ovvero alle uniche formazioni politiche che sono state in grado di organizzarsi e crescere all'ombra di Mubarak, la pratica politica e l'esercizio di governo cui questi gruppi saranno chiamati non potrà che trasformarli, almeno in parte. E se non loro, almeno trasformerà la società egiziana che, proprio grazie alla riconquista di una centralità fino ad oggi negata, modellerà gradualmente una coscienza civile che verosimilmente - con gli anni - porterà al ridimensionamento delle posizioni estremiste. Questa è la grande scommessa che l'occidente ha davanti a sé ed è anche l'unico cavallo su cui puntare, vista la resilienza delle forze reazionarie al governo nei paesi arabi, la portata ancora incerta delle rivolte popolari e la loro mancanza di uniformità e coerenza. Sarebbe meglio crederci, altrimenti ci penserà qualcun altro.
Rivoluzione Culturale in Tibet.
















Cina, quasi 2012.