Descamisados. Avevo avvisato. Cristina Kirchner va fermata prima che sia tardi. Il giro nazionalista sulle Falklands ha trovato la sua naturale conseguenza nell'espropriazione del 51% di Repsol YPF, avvenuta pochi giorni dopo. I due avvenimenti sono strettamente collegati sul piano ideologico: la denuncia del colonialismo britannico si concretizza nell'attacco frontale a un colosso petrolifero straniero, accusato nemmeno troppo sottilmente di sfruttare le risorse del sottosuolo argentino in contrasto con gli interessi nazionali. Gli ingredienti di questa deriva populista sono noti, e Buenos Aires si posiziona ufficialmente sulla linea rossa tracciata in precedenza da Caracas, La Paz, Quito. Seguiranno Brasilia e Montevideo. Questa è la prima riflessione, quasi ovvia. La seconda, meno ovvia, è la seguente. Repsol YPF è (era) un'azienda privata, il cui presidente, il catalano Brufau, non ha mai dimostrato nessuno scrupolo nell'investire in paesi in cui il quadro di protezione legale del business è - per usare un eufemismo - quantomeno incerto. Famosa l'immagine dell'industriale seduto sotto il ritratto gigante di Che Guevara, nel corso di una riunione con il presidente boliviano Evo Morales. Ora, anche volendo scomodare il concetto di impresa di interesse nazionale, essendo Brufau il responsabile principale di un'azienda privata e non statale, non c'è alcuna ragione per cui il governo di Madrid debba intervenire nella questione. I dirigenti di Repsol sono persone responsabili delle loro azioni e, quando decidono di andare a fare affari nella giungla, lo fanno evidentemente conoscendone tutte le possibili implicazioni. Se Brufau è così amico dei capi di stato bolivariani, perché non è riuscito a salvare Repsol YPF? Perché non garantisce per loro di fronte agli altri imprenditori spagnoli ed europei in preda al panico per quello che potrà succedere da ora in avanti? Per farla breve: se oggi vai a farti fotografare sotto il ritratto di Che Guevara, puoi anche pensare che magari domani l'azienda qualcuno te la porta via. Detto questo, qualcuno fermi la Kirchner, la sua gioventù peronista e il suo viceministro dell'economia.
28 abr 2012
26 abr 2012
Canta che ti passa. In Norvegia oggi quarantamila persone hanno cantato una canzone che (cito da Il Post) "parla di un cielo pieno di stelle, del mare azzurro e di terre piene di fiori, dove vivono i bambini dell’arcobaleno". L'hanno fatto per manifestare contro Breivik, il serial killer che qualche mese fa ha sterminato a sangue freddo una settantina di persone. Per capirci: un nazista biondo fa una strage di proporzioni epiche, semina il terrore per ore, ammazza come conigli decine di ragazzi, e i norvegesi - invece di sotterrarlo vivo - gli dedicano un motivetto da figli dei fiori. Diranno che è una forma altissima di protesta civile. Diranno che dimostra la superiorità della civiltà dell'amore e della convivenza sulla brutalità della violenza. Diranno che è un esempio dello sviluppo sociale dei paesi scandinavi. Diranno un sacco di stronzate come queste. Ma non diranno che con questa pagliacciata politicamente corretta la Norvegia si è definitivamente consegnata al suo assassino, dimostrando che ama l'idea che ha di se stessa e del suo presunto modello più dei suoi figli. Lo si era già intuito il giorno dello sterminio, quando mandarono poliziotti disarmati a fermare il criminale impazzito, un'ora e mezza dopo, con la proverbiale calma socialdemocratica. Poi quella prigione, tirata a lucido, piena di accessori, mancava il cinemascope (o c'era?). E questo giudizio, bellino, pulito, profumato, in perfetto stile progre, con il nazista che piange, rivendica, e quella voglia matta di dichiararlo malato di mente e non se ne parli più. Tutto molto civile, in effetti. Come lo zecchino d'oro di oggi. Nessuno che in tutti questi mesi abbia preso un fucile e sia andato a fare quel che il modernissimo stato norvegese non sarà mai in grado di garantire, un minimo di giustizia. Breivik finirà per insegnare educazione civica ai bambini, dopo qualche anno di carcere alla Pablo Escobar. Ogni volta che penso al modello scandinavo mi vengono i conati di vomito.
In fila per tre. La parata del 15 aprile a Pyongyang, vista dall'alto. Quella enorme macchia rossa sono nordcoreani schierati.
4 abr 2012
Birmania, istruzioni per l'uso. Fino a un anno e mezzo fa, in Birmania, pronunciare pubblicamente il nome di Aung San Suu Kyi era proibito. Per non parlare della sua foto o del suo partito. Domenica scorsa il premio Nobel per la Pace è stata eletta per la prima volta al parlamento, le sue immagini sono da mesi esposte nelle strade di città e villaggi e la Lega Nazionale per la Democrazia ha vinto quasi tutti i seggi in palio nelle elezioni suppletive (più di 40 su un totale di 45). Sembra un miracolo o, per i non credenti, la realizzazione di quella via birmana alla democrazia promessa da tempo dalla giunta militare.
Tutto bene, quindi? Troppo presto per dirlo. E' innegabile l'importanza di quanto avvenuto nel paese da quando Thein Sein, l'ex generale convertitosi in presidente della nazione, ha avviato il suo processo riformatore. Centinaia di prigionieri politici sono stati scarcerati, la censura sui media rilassata, il principale partito di opposizione legalizzato, i rapporti diplomatici con l'occidente ripresi. Gli ottimisti hanno certamente ragione ad esultare. Ma forse gli scettici non meritano ancora di essere messi da parte come anticaglie. Rimangono nelle prigioni birmane un migliaio di dissidenti, i militari continuano a detenere di fatto il controllo politico, la stampa resta condizionata dal regime e soprattutto mancano tutte le più elementari premesse legali, giuridiche e culturali per l'affermazione dello stato di diritto. In qualsiasi momento la casta civil-militare al potere potrebbe decidere di fare marcia indietro, e nessuno - nemmeno formalmente - sarebbe in grado di impedirglielo. Quelle che seguono sono alcune considerazioni sulle conseguenze del voto di domenica.
- L'errore più comune delle cancellerie occidentali è stato salutare l'elezione al parlamento di Aung San Suu Kyi come un punto di svolta nel processo di democratizzazione del paese. C'è una gran voglia di alleggerire le sanzioni e di cominciare a fare affari. Legittimo, ma pericoloso. In realtà un vero e proprio processo riformatore non esiste al momento. Abbiamo assistito ad una serie di gesti isolati da parte di Thein Sein, certamente significativi ma difficilmente inquadrabili all'interno di un preciso programma di modernizzazione. Siamo di fronte a gentili concessioni dalle quali non è ancora possibile ricavare la certezza di una effettiva volontà di cambiamento.
- La rapidità con cui il governo ha agito affinché Aung San Suu Kyi potesse reincorporarsi nella vita politica del paese sembra rispondere più a un disegno di legittimazione internazionale che ad una sorta di ravvedimento sincero, a fronte delle ingiustizie cui è stata sottoposta nel corso degli anni. Invece che un segnale concreto verso la riabilitazione della sua figura, la sua elezione rappresenta ad oggi la via diretta per cooptare e assimilare la più famosa dissidente del mondo all'interno delle strutture di potere. Includerla per neutralizzarla. In una parola, usarla. Non a caso la parziale vittoria elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia avviene in una fase iniziale e incerta delle cosiddette riforme, e non al termine di un processo condiviso e concordato tra governo e opposizione. La presunta transizione è guidata e diretta da quella stessa classe politico-militare che fino a ieri si era rifiutata persino di contemplarla, e non presenta nessuna delle caratteristiche proprie di un passaggio di potere. Non è quindi in grado, di per sé, di favorire il consolidamento di un'alternativa politica all'attuale classe dirigente. In questo contesto il riconoscimento immediato del risultato elettorale da parte di Thein Sein deve essere interpretato come un campanello d'allarme, contrariamente a quanto si potrebbe pensare: il piano del regime sta dando i frutti sperati. Con la normalizzazione di Aung San Suu Kyi sarà più facile allentare la morsa delle sanzioni e presentarsi come un interlocutore affidabile sulla scena diplomatica. Magari mi sbaglio e i militari son diventati agnellini. Ma altre opzioni sono aperte, mi sembra.
- Per rendersi conto dello scollamento fra istituzioni e paese basta guardare all'attuale composizione del parlamento birmano. I seggi conquistati dalla LND rappresentano poco più del 5 per cento del totale, mentre gli esponenti legati al regime per affiliazione politica o appartenenza alle forze armate sono circa il 75 per cento. Tecnicamente l'opposizione non ha nessuna possibilità di influenzare le politiche del governo. A livello ideale e simbolico, è vero, la presenza di Aung San Suu Kyi a Naypyidaw presenta elementi di indubbio interesse e perfino potenzialità destabilizzatrici. Ma questo dipende soprattutto da come lei interpreterà il suo ruolo, se in appoggio o in contrapposizione ai militari. Anche qui, il tempo dirà.
In ogni caso, estrapolando - senza pretese di scientificità - l'appoggio ricevuto dalla Lega in questa tornata parziale (sembra si aggiri sull'80 per cento dei voti), la proiezione a livello nazionale assegnerebbe a questo partito circa 400 seggi su un totale di 664, un 60 per cento del totale, dal momento che i generali deterrebbero a priori un 25 per cento degli scanni che nessuno potrebbe toccare. Per cambiare la costituzione è necessario arrivare al 75 per cento. Ammesso e non concesso che nel 2015 (data prevista per le prossime elezioni generali) il voto sia regolare, il consenso ad Aung San Suu Kyi si mantenga intatto e il regime riconosca la sconfitta, nemmeno così l'opposizione sarebbe nelle condizioni di cambiare le regole del gioco. In tre anni, comunque, possono succedere molte cose, in un senso o nell'altro.
- I birmani hanno votato e possono chiaccherare di politica con meno timore di prima, ma il paese non è cambiato. La povertà e il degrado economico sono piaghe endemiche, i rifugiati continuano ad affollare i campi profughi al confine con la Thailandia, completamente dimenticati da tutti, i conflitti etnici continuano con intensità crescente, nonostante i tentativi di Naypyidaw di dimostrare il contrario e, dulcis in fundo, le prigioni trattengono ancora centinaia di oppositori, forse più di un migliaio. I generali possono aver posato le uniformi, ma la guerra non è finita.
- Infine, provo a rispondere alla domanda sottesta a tutte le analisi degli ultimi mesi. Dando per buona la veridicità del processo in atto e la buona fede delle parti in causa, come è possibile che un regime militare brutale come quello birmano si apra alle riforme? Tralascio le ragioni utilitaristiche per concentrarmi su aspetti di dottrina politica. Per me la chiave di interpretazione è la seguente. Per quanto repressiva, la dittatura birmana non era (è) fondata su un'ideologia, su un discorso politico autoritario. Il potere dei generali si è sempre appoggiato su altri elementi: la forza dell'esercito, l'intimidazione e il controllo sociale tramite la rete di spie, la corruzione. Nemmeno il nazionalismo ha costituito un vero e proprio collante ideologico, in quanto utilizzato principalmente in chiave negativa, come strumento di lotta contro le etnie minoritarie. I sistemi oppressivi prodotti o sostenuti da un'ideologia sono irriformabili. Nel momento in cui cambiano le premesse del discorso politico autoritario, per ragioni che adesso non è possibile approfondire, crolla l'intera struttura di potere. L'esempio classico è rappresentato dalla caduta dei regimi comunisti tra il 1989 e il 1991. Una crepa nel muro determina la fine del sistema. In Unione Sovietica, la perestroika nasce per salvare il moloch ma finisce rapidamente sepolta sotto le sue macerie. Al contrario, nei regimi dittatoriali a-ideologici, come quello birmano, una decisione d'imperio può avviare un cambiamento senza mettere in discussione l'esistenza stessa dell'organismo malato. Per farla breve, nel contesto birmano il cambiamento è (teoricamente) possibile agendo solo sul piano formale (le istituzioni) e sul piano sostanziale (i rapporti di forza fra stato e cittadini), mentre l'ideologia corrompe immediatamente l'essenza di un sistema, e ne determina la sua natura fino a diventarne ontologicamente inseparabile. Volendo semplificare, è la differenza che passa fra autoritarismo e totalitarismo, o tra fascismo e comunismo. L'argomento merita ben altro spazio, ma mi fermo qui. I commenti sono aperti.
Tutto bene, quindi? Troppo presto per dirlo. E' innegabile l'importanza di quanto avvenuto nel paese da quando Thein Sein, l'ex generale convertitosi in presidente della nazione, ha avviato il suo processo riformatore. Centinaia di prigionieri politici sono stati scarcerati, la censura sui media rilassata, il principale partito di opposizione legalizzato, i rapporti diplomatici con l'occidente ripresi. Gli ottimisti hanno certamente ragione ad esultare. Ma forse gli scettici non meritano ancora di essere messi da parte come anticaglie. Rimangono nelle prigioni birmane un migliaio di dissidenti, i militari continuano a detenere di fatto il controllo politico, la stampa resta condizionata dal regime e soprattutto mancano tutte le più elementari premesse legali, giuridiche e culturali per l'affermazione dello stato di diritto. In qualsiasi momento la casta civil-militare al potere potrebbe decidere di fare marcia indietro, e nessuno - nemmeno formalmente - sarebbe in grado di impedirglielo. Quelle che seguono sono alcune considerazioni sulle conseguenze del voto di domenica.
- L'errore più comune delle cancellerie occidentali è stato salutare l'elezione al parlamento di Aung San Suu Kyi come un punto di svolta nel processo di democratizzazione del paese. C'è una gran voglia di alleggerire le sanzioni e di cominciare a fare affari. Legittimo, ma pericoloso. In realtà un vero e proprio processo riformatore non esiste al momento. Abbiamo assistito ad una serie di gesti isolati da parte di Thein Sein, certamente significativi ma difficilmente inquadrabili all'interno di un preciso programma di modernizzazione. Siamo di fronte a gentili concessioni dalle quali non è ancora possibile ricavare la certezza di una effettiva volontà di cambiamento.
- La rapidità con cui il governo ha agito affinché Aung San Suu Kyi potesse reincorporarsi nella vita politica del paese sembra rispondere più a un disegno di legittimazione internazionale che ad una sorta di ravvedimento sincero, a fronte delle ingiustizie cui è stata sottoposta nel corso degli anni. Invece che un segnale concreto verso la riabilitazione della sua figura, la sua elezione rappresenta ad oggi la via diretta per cooptare e assimilare la più famosa dissidente del mondo all'interno delle strutture di potere. Includerla per neutralizzarla. In una parola, usarla. Non a caso la parziale vittoria elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia avviene in una fase iniziale e incerta delle cosiddette riforme, e non al termine di un processo condiviso e concordato tra governo e opposizione. La presunta transizione è guidata e diretta da quella stessa classe politico-militare che fino a ieri si era rifiutata persino di contemplarla, e non presenta nessuna delle caratteristiche proprie di un passaggio di potere. Non è quindi in grado, di per sé, di favorire il consolidamento di un'alternativa politica all'attuale classe dirigente. In questo contesto il riconoscimento immediato del risultato elettorale da parte di Thein Sein deve essere interpretato come un campanello d'allarme, contrariamente a quanto si potrebbe pensare: il piano del regime sta dando i frutti sperati. Con la normalizzazione di Aung San Suu Kyi sarà più facile allentare la morsa delle sanzioni e presentarsi come un interlocutore affidabile sulla scena diplomatica. Magari mi sbaglio e i militari son diventati agnellini. Ma altre opzioni sono aperte, mi sembra.
- Per rendersi conto dello scollamento fra istituzioni e paese basta guardare all'attuale composizione del parlamento birmano. I seggi conquistati dalla LND rappresentano poco più del 5 per cento del totale, mentre gli esponenti legati al regime per affiliazione politica o appartenenza alle forze armate sono circa il 75 per cento. Tecnicamente l'opposizione non ha nessuna possibilità di influenzare le politiche del governo. A livello ideale e simbolico, è vero, la presenza di Aung San Suu Kyi a Naypyidaw presenta elementi di indubbio interesse e perfino potenzialità destabilizzatrici. Ma questo dipende soprattutto da come lei interpreterà il suo ruolo, se in appoggio o in contrapposizione ai militari. Anche qui, il tempo dirà.
In ogni caso, estrapolando - senza pretese di scientificità - l'appoggio ricevuto dalla Lega in questa tornata parziale (sembra si aggiri sull'80 per cento dei voti), la proiezione a livello nazionale assegnerebbe a questo partito circa 400 seggi su un totale di 664, un 60 per cento del totale, dal momento che i generali deterrebbero a priori un 25 per cento degli scanni che nessuno potrebbe toccare. Per cambiare la costituzione è necessario arrivare al 75 per cento. Ammesso e non concesso che nel 2015 (data prevista per le prossime elezioni generali) il voto sia regolare, il consenso ad Aung San Suu Kyi si mantenga intatto e il regime riconosca la sconfitta, nemmeno così l'opposizione sarebbe nelle condizioni di cambiare le regole del gioco. In tre anni, comunque, possono succedere molte cose, in un senso o nell'altro.
- I birmani hanno votato e possono chiaccherare di politica con meno timore di prima, ma il paese non è cambiato. La povertà e il degrado economico sono piaghe endemiche, i rifugiati continuano ad affollare i campi profughi al confine con la Thailandia, completamente dimenticati da tutti, i conflitti etnici continuano con intensità crescente, nonostante i tentativi di Naypyidaw di dimostrare il contrario e, dulcis in fundo, le prigioni trattengono ancora centinaia di oppositori, forse più di un migliaio. I generali possono aver posato le uniformi, ma la guerra non è finita.
- Infine, provo a rispondere alla domanda sottesta a tutte le analisi degli ultimi mesi. Dando per buona la veridicità del processo in atto e la buona fede delle parti in causa, come è possibile che un regime militare brutale come quello birmano si apra alle riforme? Tralascio le ragioni utilitaristiche per concentrarmi su aspetti di dottrina politica. Per me la chiave di interpretazione è la seguente. Per quanto repressiva, la dittatura birmana non era (è) fondata su un'ideologia, su un discorso politico autoritario. Il potere dei generali si è sempre appoggiato su altri elementi: la forza dell'esercito, l'intimidazione e il controllo sociale tramite la rete di spie, la corruzione. Nemmeno il nazionalismo ha costituito un vero e proprio collante ideologico, in quanto utilizzato principalmente in chiave negativa, come strumento di lotta contro le etnie minoritarie. I sistemi oppressivi prodotti o sostenuti da un'ideologia sono irriformabili. Nel momento in cui cambiano le premesse del discorso politico autoritario, per ragioni che adesso non è possibile approfondire, crolla l'intera struttura di potere. L'esempio classico è rappresentato dalla caduta dei regimi comunisti tra il 1989 e il 1991. Una crepa nel muro determina la fine del sistema. In Unione Sovietica, la perestroika nasce per salvare il moloch ma finisce rapidamente sepolta sotto le sue macerie. Al contrario, nei regimi dittatoriali a-ideologici, come quello birmano, una decisione d'imperio può avviare un cambiamento senza mettere in discussione l'esistenza stessa dell'organismo malato. Per farla breve, nel contesto birmano il cambiamento è (teoricamente) possibile agendo solo sul piano formale (le istituzioni) e sul piano sostanziale (i rapporti di forza fra stato e cittadini), mentre l'ideologia corrompe immediatamente l'essenza di un sistema, e ne determina la sua natura fino a diventarne ontologicamente inseparabile. Volendo semplificare, è la differenza che passa fra autoritarismo e totalitarismo, o tra fascismo e comunismo. L'argomento merita ben altro spazio, ma mi fermo qui. I commenti sono aperti.
3 abr 2012
Basta ya. Uno sente parlare Cristina Kirchner e gli vien voglia di invadere l'Argentina. E' incredibile come certe classi dirigenti, certi paesi non imparino mai nulla dai loro errori. La grottesca pretesa della dittatura fascista di andarsi a prendere le Falklands, trent'anni fa, è sostanzialmente rivendicata oggi da una signora che si dichiara di sinistra. Non importa il colore politico quando il nazionalismo e il populismo sono valori fondanti, probabilmente gli unici in grado di coprire un drammatico vuoto di idee e di programma. Il ricorso alla retorica anti-imperialista, l'attacco diretto alla Gran Bretagna, la sbandierata esistenza di diritti storici sul territorio conteso: sembra di sentire Galtieri. Ricordo quando arrivai in Spagna, dieci anni fa. Ricorreva il ventennale e i giornali erano pieni di ricostruzioni. Negli editoriali i generali avevano nettamente la meglio. L'arroganza era quella inglese. Da allora giudico le persone dalla loro opinione sulla guerra delle Falklands. Se dicono Malvinas, cambio discorso e interlocutore.
Tanto chi legge è scemo. E così, dopo un'altra settimana Incom di #piazzafontanaadrianosofriiosotuttodegliannisettantaevoisieteignoranti, come niente il figliol prodigo oggi ci spiega che bisogna voltare pagina. La cosa grave non è che lui ci provi. E' che nessuno glielo faccia notare. Anzi, applausi, bella riflessione, come ho fatto a non pensarci prima. Pecore.
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