Cina. Pensieri sparsi. Tre settimane passate in un
paese così lontano (in ogni senso) non fanno di un viaggiatore un
esperto ma di certo permettono di confrontare la propria percezione con
la realtà. A parere di chi scrive visitare la Cina è ancora – nonostante
i grattacieli di Shanghai e i lunghi viali rimodernati di Pechino – un salto indietro nel tempo. Del miracolo economico
cinese si parla ogni giorno sui giornali ed è evidente come milioni di
persone possano oggi godere di un livello di vita che mai avrebbero
potuto immaginare alla morte di Mao. Ma i colori e gli odori che
tornando a casa vi porterete dietro saranno ancora quelli di
un’arretratezza cronica e di una povertà diffusa. Come tutte le nazioni
che ne hanno condiviso il destino la Cina è chiaramente un paese piagato
da sessant’anni di socialismo reale cui le riforme economiche più o
meno radicali dell’ultimo ventennio hanno cercato di conferire un nuovo
volto. Il problema è che il corpo resta profondamente malato. La Cina è
l’ennesima conferma (in questo caso vivente) del disastro del
marxismo-leninismo: cresce e genera speranze laddove ha abbandonato
l’ideologia, è piegata su se stessa e produce dolore e paura dove l’ha
mantenuta. Direttamente o indirettamente tutto in Cina rivela questo
fallimento. Anche i dettagli. In una mappa di Xi’an (il centro storico del paese) distribuita dalle autorità locali e destinata agli stranieri si legge: «Negli
ultimi anni Xi’an si è data un modello di sviluppo di tipo occidentale
che permetterà di accogliere sempre più turisti con amicizia e
ospitalità». Interessante, no? Decenni di indottrinamento
ideologico (che continua) contro l’imperialismo, la depravazione
borghese e il demone capitalista e quando la Grande Proletaria
si muove deve prendere come esempio il modello tanto esecrato.
Ovviamente la versione che i padroni del pensiero forniscono ai loro
sudditi è un po’ diversa: come insegnava Deng si tratta di costruire il socialismo «adattandolo alla realtà cinese».
Forse è per questo che spuntano come funghi banche e industrie ma nelle
edicole è impossibile trovare un giornale o una rivista in lingua
inglese. Forse è per questo che la modernizzazione della Cina
assomiglia più a un nuovo piano quinquennale adeguato ai tempi che a una
effettiva liberalizzazione economica. Forse è per questo che, come avvertiva tra gli altri il FT
mesi fa, capitalismo e libero mercato in Cina non sono sinonimi. Se la
libertà economica prendesse piede sul serio non ci sarebbe più posto per
il Partito Comunista che, fino a prova contraria, continua ad
autolegittimarsi in quanto guida dell’economia e della società e la cui
dottrina ufficiale resta il marxismo-leninismo interpretato attraverso
il pensiero di Mao. Lo Stato potrà anche privatizzare fabbriche e
fattorie ma non cederà mai l’iniziativa ed il controllo. E all’Occidente
potrà perfino non importare ma la nuova Cina non nascerà davvero finchè
non morirà il regime.
(continua… con altre foto)
(continua… con altre foto)
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