24 ago 2004

Cina. Pensieri sparsi. Tre settimane passate in un paese così lontano (in ogni senso) non fanno di un viaggiatore un esperto ma di certo permettono di confrontare la propria percezione con la realtà. A parere di chi scrive visitare la Cina è ancora – nonostante i grattacieli di Shanghai e i lunghi viali rimodernati di Pechino – un salto indietro nel tempo. Del miracolo economico cinese si parla ogni giorno sui giornali ed è evidente come milioni di persone possano oggi godere di un livello di vita che mai avrebbero potuto immaginare alla morte di Mao. Ma i colori e gli odori che tornando a casa vi porterete dietro saranno ancora quelli di un’arretratezza cronica e di una povertà diffusa. Come tutte le nazioni che ne hanno condiviso il destino la Cina è chiaramente un paese piagato da sessant’anni di socialismo reale cui le riforme economiche più o meno radicali dell’ultimo ventennio hanno cercato di conferire un nuovo volto. Il problema è che il corpo resta profondamente malato. La Cina è l’ennesima conferma (in questo caso vivente) del disastro del marxismo-leninismo: cresce e genera speranze laddove ha abbandonato l’ideologia, è piegata su se stessa e produce dolore e paura dove l’ha mantenuta. Direttamente o indirettamente tutto in Cina rivela questo fallimento. Anche i dettagli. In una mappa di Xi’an (il centro storico del paese) distribuita dalle autorità locali e destinata agli stranieri si legge: «Negli ultimi anni Xi’an si è data un modello di sviluppo di tipo occidentale che permetterà di accogliere sempre più turisti con amicizia e ospitalità». Interessante, no? Decenni di indottrinamento ideologico (che continua) contro l’imperialismo, la depravazione borghese e il demone capitalista e quando la Grande Proletaria si muove deve prendere come esempio il modello tanto esecrato. Ovviamente la versione che i padroni del pensiero forniscono ai loro sudditi è un po’ diversa: come insegnava Deng si tratta di costruire il socialismo «adattandolo alla realtà cinese». Forse è per questo che spuntano come funghi banche e industrie ma nelle edicole è impossibile trovare un giornale o una rivista in lingua inglese. Forse è per questo che la modernizzazione della Cina assomiglia più a un nuovo piano quinquennale adeguato ai tempi che a una effettiva liberalizzazione economica. Forse è per questo che, come avvertiva tra gli altri il FT mesi fa, capitalismo e libero mercato in Cina non sono sinonimi. Se la libertà economica prendesse piede sul serio non ci sarebbe più posto per il Partito Comunista che, fino a prova contraria, continua ad autolegittimarsi in quanto guida dell’economia e della società e la cui dottrina ufficiale resta il marxismo-leninismo interpretato attraverso il pensiero di Mao. Lo Stato potrà anche privatizzare fabbriche e fattorie ma non cederà mai l’iniziativa ed il controllo. E all’Occidente potrà perfino non importare ma la nuova Cina non nascerà davvero finchè non morirà il regime.
(continua… con altre foto)

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