Grande Russia e piccole patrie. La facilità con cui Putin ha potuto realizzare l'operazione Crimea, in una successione di eventi prevedibile e allo stesso tempo apparentemente inarrestabile, è una conferma dello stato comatoso in cui si trovano le relazioni e il diritto internazionali. L'irrilevanza dell'ONU, nuovamente bloccata dal veto della potenza i cui interessi sono in gioco, è solo la punta del'iceberg dell'assoluta impotenza della diplomazia nel dirimere le controversie tra stati. L'unica regola tuttora vigente, dopo secoli di battaglie e di trattati, è quella dell'azione di forza e della possibile reazione. Reazione che (anche) questa volta non c'è stata: la comunità internazionale e le potenze democratiche hanno certo ammonito, applicato sanzioni simboliche, perfino minacciato, ma sostanzialmente sono rimaste a guardare sperando che Putin si fermi qui. E' una Monaco senza i crismi dell'ufficialità, un appesement informale, un ulteriore passo indietro nella difesa dei propri principi. A guardarla dal punto di vista della realpolitik la scelta del lasciapassare potrebbe perfino considerarsi fortunata. In fondo con il cambio di governo a Kiev l'Ucraina si è allontanata dalla sfera di influenza politica di Mosca e l'occidente ha di fatto recuperato un alleato strategico. Il prezzo pagato è stato la perdita di una porzione di territorio certamente importante ma tutto sommato non così decisiva negli equilibri di forza. Insomma due a uno per noi. Però nella storia i precedenti spesso contano di più dei dati di fatto e l'annessione della Crimea apre una porta verso la destabilizzazione di altre aree con conseguenze potenzialmente inquietanti. La Russia nega ma la questione ucraina non può certo dirsi conclusa e altri protettorati di fatto attendono solo l'autorizzazione ufficiale dello zar per seguire i passi di Sebastopoli. Il prossimo obiettivo potrebbe essere la Transnistria, e di lì a seguire. Parliamoci chiaro, perché Putin dovrebbe fermarsi qui? Mai come in questo caso i parallelismi sono fuori luogo: il padrone del Cremlino non è Hitler e, se l'URSS ha incarnato il peggior sistema dittatoriale della storia, la Russia è soltanto un regime in perenne transizione con costanti ricadute autoritarie. Ma è tuttavia evidente che Putin ha consacrato il suo terzo mandato all'espansionismo, a quell'idea di Greater Russia (dove greater sta per grande ma anche per potente e rispettata) che da tempo va sgranando sotto gli occhi distratti delle cancellerie d'Europa e d'America. Il pericolo della situazione attuale sta tutto in questa visione, frutto tutto sommato della decadenza politica di chi la promuove all'interno e all'esterno del paese, e forse proprio per questo ancora più preoccupante. Putin non è uno sciocco ma, mentre tutti pensavano che fosse uno statista dai modi un po' bruschi affezionato alla realpolitik, lui stava costruendo una profezia alla quale ha finito per credere. Bisogna capire fino a che punto ci credano i russi. Una considerazione finale. Il nazionalismo sembra definitivamente destinato ad affermarsi come l'ideologia dominante di questo inizio di secolo. Il vuoto lasciato dalla sconfitta dei totalitarismi è stato solo in parte riempito dall'affermazione delle libertà individuali e dello stato di diritto. A livello di coscienza collettiva non sono stati i principi liberali ad affermarsi ma un nuovo senso di appartenenza pubblica: dalla Catalogna, alla Scozia, alla Russia è tutto un fiorire di retorica revanchista, di piccole e grandi patrie, di terre intrise dal sangue dei nostri. Possiamo far finta di non accorgercene ma non per questo saremo esonerati dall'occuparcene.
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