Paradossi. Aung San Suu Kyi ha potuto ritirare il premio Sacharov dopo ventitre anni. Assegnatole quando era un'icona imprigionata dal regime, lo riceve nel momento in cui sembra piuttosto un'ambasciatrice di quelli che fino a ieri erano i suoi carcerieri. Impossibile scendere a patti con la politica senza perdere la santità che solo la lotta solitaria e il sacrificio quotidiano possono conferirti, questo è chiaro. Ma, ugualmente, osservare oggi Aung San Suu Kyi seduta nel parlamento di Naypyidaw trasmette una sensazione di disagio, almeno al sottoscritto. Troppo flebile la sua voce di condanna nei confronti di una dittatura che ha soggiogato non solo le sue velleità ma quelle di un intero popolo per decenni e che non ha ancora compiuto nessun passo indietro sostanziale. Troppo ambigue le sue prese di posizione contro la repressione che continua nei confronti dei gruppi etnici delle regioni periferiche e delle minoranze musulmane. Troppo semplice questa transizione dall'autoritarismo militare all'amministrazione civile, benedetta da chi fino ieri era l'antitesi del potere e oggi, a ben guardare, ne è parte integrante. In realtà Aung San Suu Kyi non ha mai smesso di essere un ostaggio, nemmeno oggi che ritira il suo meritato riconoscimento.
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