La fine della prima rivolta araba. Sulla cosiddetta primavera araba ho nutrito fin dal principio alcune perplessità, ed è anche per questo che non ne ho scritto molto. I dubbi non riguardavano certo la paura dell'ignoto cui sempre si richiamano quelli che vogliono che tutto rimanga com'è: al contrario, l'influenza della dottrina Bush sui movimenti di piazza continua a sembrarmi del tutto verosimile, coerente ed auspicabile. Piuttosto si riferivano all'esistenza stessa di una vera rivoluzione democratica in medioriente, o meglio alla possibilità che lo spirito di liberazione che aveva caratterizzato le manifestazioni delle prime settimane potesse concretizzarsi ed estendersi fino a prevalere. Sgombrato il campo da parallelismi sciocchi e anti-storici (su tutti quello con il 1989, completamente diverso nelle premesse, nello svolgimento e - adesso sarà chiaro anche ai più superficiali - nelle conclusioni), rimaneva da vedere fino a che punto l'inerzia si sarebbe mantenuta dalla parte dello spontaneismo democratico dell'inizio e quale sarebbe stata la reazione di regimi che avevano in comune tra di loro soltanto una più o meno marcata tendenza all'autoritarismo e alla repressione.
Scrivono Agha e Malley in questo articolo che la primavera araba è finita l'11 febbraio 2011, quando Mubarak è stato deposto. E' anche la mia impressione. Paradossalmente, proprio nel momento in cui l'impeto anti-establishment sembrava destinato a trionfare oltre Tunisia ed Egitto, è cominciata la normalizzazione, che potremmo effettivamente chiamare controrivoluzione se solo riconoscessimo nelle ribellioni prodottesi fino a quel momento le caratteristiche di un moto rivoluzionario coerente e organizzato. Cosa della quale personalmente continuo a dubitare. La normalizzazione si è sviluppata su due fronti: il primo interno ai nuovi regimi, che sono rimasti controllati de facto da personalità vicine agli autocrati deposti o direttamente dai militari; il secondo provocato dalla reazione dei governi in carica, per nulla intenzionati a farsi abbattere da una serie di manifestazioni popolari più o meno pacifiche (Bahrein, Yemen, Siria e Libia). Da qui la violenza, l'intervento straniero e tutto quel che ne è derivato.
Le cause di questo semi-fallimento (perché non di fallimento totale si tratta) possono essere molteplici: l'assenza di tradizione democratica, la mancanza di un'opposizione organizzata e di una leadership riconoscibile, l'eterogeneità degli ideali e delle rivendicazioni in nome dei quali il popolo si è sollevato e via dicendo. Ma secondo me c'è un fattore decisivo che rimane sempre (volutamente) fuori dalle analisi e che invece ha giocato un ruolo determinante nel ridimensionamento delle aspettative iniziali: l'ambiguità dell'occidente e l'indefinizione del suo ruolo nel contesto della ribellione mediorientale. Purtroppo la retorica sulla necessità del multilateralismo e del carattere autoctono delle rivolte, unita al rifiuto ipocrita del concetto di intervento per la democrazia (sostituito dalla nozione politicamente corretta di intervento umanitario, che non è la stessa cosa), ha creato un simulacro di politica internazionale, priva di strategia, di obiettivi e di progetto, in cui la trama di ideali ed interessi è diventata - adesso sì - assolutamente inestricabile. Prova ne sia la sconclusionata e improvvisata avventura libica, che finirà bene solo perché alla fine i regimi criminali sono comunque destinati all'insuccesso, ma che rappresenta il tipo di guerra confusa e ammantata di imprecisati propositi che tanto piace ai progressisti e ai funzionari delle Nazioni Unite. Dietro alle favole per bambini del leading from behind, del pragmatismo e della riscoperta di un realismo con finalità redentrici da parte dell'amministrazione Obama, si nasconde l'equivoco di fondo che riduce l'azione dell'occidente (e degli Stati Uniti in particolare) ad una caricatura di se stessa. Quella che i liberal salutano come la prova definitiva del superamento dell'era Bush e i neoconservatori di sinistra (o presunti tali) come la continuazione della sua dottrina, è invece un ibrido senza capo né coda che toglie legittimità a qualsiasi pretesa di stare dalla parte giusta della storia, semplicemente perché si è incapaci di riconoscere la parte giusta. La principale differenza fra l'America che piantava parlamenti in mezzo al deserto e quella che non sa bene cosa fare da grande, è che per Bush promozione della democrazia e interessi americani (occidentali) coincidevano mentre per Obama i due concetti non sono necessariamente assimilabili. Anzi, possono essere in contraddizione. Se non si capisce questo si finisce per credere davvero che Obama e Bush siano la stessa cosa, promuovano gli stessi principi, portino avanti la stessa politica. O, al contrario, che siano come il diavolo e l'acqua santa.
Questa è, a mio avviso, la chiave di interpretazione di quel che sta succedendo al Cairo e a Washington. E' difficile perseguire una politica di liberazione senza un ideale coerente da contrapporre alla pratica autoritaria. E' opportunista e controproducente parlare di democrazia a Tripoli, di moderazione a Damasco e di status quo a Manama. E si rischia di fare la fine di Israele che, da modello democratico in costante lotta per la sopravvivenza, si è autodeclassato a nano politico in balia degli eventi, incapace di decidere se preferisce continuare a trattare con regimi non esplicitamente ostili o spingere, coerentemente con la propria natura, per la rinascita della cittadinanza araba anche al di fuori dei suoi confini.
Tra tutte le opzioni sul futuro della primavera araba, la più probabile mi sembra quella che vede nelle attuali rivolte soltanto la prima ondata di un movimento di democratizzazione che si definirà nel corso dei prossimi anni, forse decenni. Ma la strada sarà ancora più tortuosa in assenza di una strategia politica che punti alla liberalizzazione delle masse arabe e contemporaneamente alla democratizzazione delle élites laiche e filo-occidentali. La congiunzione di queste due trasformazioni (epocali) rappresenterà la vera svolta per il medioriente. Purtroppo un occidente tentennante e insicuro del proprio ruolo difficilmente potrà contribuire a questo processo e dovrà accontentarsi, per dirla con Agha e Malley, di negoziare i propri margini di influenza con una classe dirigente di estrazione islamista che finirà per proporsi come il suo principale interlocutore (ed alleato). La prospettiva non è delle più stimolanti.
Scrivono Agha e Malley in questo articolo che la primavera araba è finita l'11 febbraio 2011, quando Mubarak è stato deposto. E' anche la mia impressione. Paradossalmente, proprio nel momento in cui l'impeto anti-establishment sembrava destinato a trionfare oltre Tunisia ed Egitto, è cominciata la normalizzazione, che potremmo effettivamente chiamare controrivoluzione se solo riconoscessimo nelle ribellioni prodottesi fino a quel momento le caratteristiche di un moto rivoluzionario coerente e organizzato. Cosa della quale personalmente continuo a dubitare. La normalizzazione si è sviluppata su due fronti: il primo interno ai nuovi regimi, che sono rimasti controllati de facto da personalità vicine agli autocrati deposti o direttamente dai militari; il secondo provocato dalla reazione dei governi in carica, per nulla intenzionati a farsi abbattere da una serie di manifestazioni popolari più o meno pacifiche (Bahrein, Yemen, Siria e Libia). Da qui la violenza, l'intervento straniero e tutto quel che ne è derivato.
Le cause di questo semi-fallimento (perché non di fallimento totale si tratta) possono essere molteplici: l'assenza di tradizione democratica, la mancanza di un'opposizione organizzata e di una leadership riconoscibile, l'eterogeneità degli ideali e delle rivendicazioni in nome dei quali il popolo si è sollevato e via dicendo. Ma secondo me c'è un fattore decisivo che rimane sempre (volutamente) fuori dalle analisi e che invece ha giocato un ruolo determinante nel ridimensionamento delle aspettative iniziali: l'ambiguità dell'occidente e l'indefinizione del suo ruolo nel contesto della ribellione mediorientale. Purtroppo la retorica sulla necessità del multilateralismo e del carattere autoctono delle rivolte, unita al rifiuto ipocrita del concetto di intervento per la democrazia (sostituito dalla nozione politicamente corretta di intervento umanitario, che non è la stessa cosa), ha creato un simulacro di politica internazionale, priva di strategia, di obiettivi e di progetto, in cui la trama di ideali ed interessi è diventata - adesso sì - assolutamente inestricabile. Prova ne sia la sconclusionata e improvvisata avventura libica, che finirà bene solo perché alla fine i regimi criminali sono comunque destinati all'insuccesso, ma che rappresenta il tipo di guerra confusa e ammantata di imprecisati propositi che tanto piace ai progressisti e ai funzionari delle Nazioni Unite. Dietro alle favole per bambini del leading from behind, del pragmatismo e della riscoperta di un realismo con finalità redentrici da parte dell'amministrazione Obama, si nasconde l'equivoco di fondo che riduce l'azione dell'occidente (e degli Stati Uniti in particolare) ad una caricatura di se stessa. Quella che i liberal salutano come la prova definitiva del superamento dell'era Bush e i neoconservatori di sinistra (o presunti tali) come la continuazione della sua dottrina, è invece un ibrido senza capo né coda che toglie legittimità a qualsiasi pretesa di stare dalla parte giusta della storia, semplicemente perché si è incapaci di riconoscere la parte giusta. La principale differenza fra l'America che piantava parlamenti in mezzo al deserto e quella che non sa bene cosa fare da grande, è che per Bush promozione della democrazia e interessi americani (occidentali) coincidevano mentre per Obama i due concetti non sono necessariamente assimilabili. Anzi, possono essere in contraddizione. Se non si capisce questo si finisce per credere davvero che Obama e Bush siano la stessa cosa, promuovano gli stessi principi, portino avanti la stessa politica. O, al contrario, che siano come il diavolo e l'acqua santa.
Questa è, a mio avviso, la chiave di interpretazione di quel che sta succedendo al Cairo e a Washington. E' difficile perseguire una politica di liberazione senza un ideale coerente da contrapporre alla pratica autoritaria. E' opportunista e controproducente parlare di democrazia a Tripoli, di moderazione a Damasco e di status quo a Manama. E si rischia di fare la fine di Israele che, da modello democratico in costante lotta per la sopravvivenza, si è autodeclassato a nano politico in balia degli eventi, incapace di decidere se preferisce continuare a trattare con regimi non esplicitamente ostili o spingere, coerentemente con la propria natura, per la rinascita della cittadinanza araba anche al di fuori dei suoi confini.
Tra tutte le opzioni sul futuro della primavera araba, la più probabile mi sembra quella che vede nelle attuali rivolte soltanto la prima ondata di un movimento di democratizzazione che si definirà nel corso dei prossimi anni, forse decenni. Ma la strada sarà ancora più tortuosa in assenza di una strategia politica che punti alla liberalizzazione delle masse arabe e contemporaneamente alla democratizzazione delle élites laiche e filo-occidentali. La congiunzione di queste due trasformazioni (epocali) rappresenterà la vera svolta per il medioriente. Purtroppo un occidente tentennante e insicuro del proprio ruolo difficilmente potrà contribuire a questo processo e dovrà accontentarsi, per dirla con Agha e Malley, di negoziare i propri margini di influenza con una classe dirigente di estrazione islamista che finirà per proporsi come il suo principale interlocutore (ed alleato). La prospettiva non è delle più stimolanti.
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