1 jun 2009

Le memorie di Zhao Ziyang sulla repressione di Piazza Tiananmen.



Su Laogai.it.
Anche se non è consigliabile farlo, proverò lo stesso a scrivere di un libro che non ho (ancora) letto.
E’ appena uscito in inglese, presto sarà tradotto in cinese ed il suo contenuto è di quelli che fanno la storia. Tratta della strage di Piazza Tiananmen, di cui il 4 giugno prossimo ricorrerà il ventennale, il grande tabù della Cina moderna. Ma non è un’analisi qualunque. Il libro è la raccolta di memorie di Zhao Ziyang, segretario del Partito Comunista Cinese all’epoca dei fatti. Morto 4 anni fa mentre stava scontando gli arresti domiciliari, Zhao ha affidato a una trentina di audiocassette i suoi ricordi e le sue considerazioni sugli eventi e le decisioni che portarono al massacro di piazza, aprendo così una voragine nel muro di segretezza che normalmente avvolge le decisioni interne al Partito-Stato. Non che l’autore riveli restroscena clamorosi, né aggiunga particolari in grado di cambiare radicalmente la percezione di quel che già si sapeva o si intuiva: tuttavia la sua testimonianza permette di comprendere dall’interno i momenti più rilevanti di quella catena decisionale che, tra giochi di potere, cinismo e insicurezze determinò la repressione. Ovviamente Zhao, che per aver optato per il dialogo con gli studenti fu prima destituito e poi rinchiuso tra le mura di casa sua, riafferma la sua funzione di mediazione contro la strategia dello scontro invocata dall’ala dura del Partito. Ovviamente salva se stesso, contrapponendo la sua mentalità aperta e riformatrice alle chiusure dei vertici. Ma al di là del punto di vista comprensibilmente soggettivo, il documento storico è di una importanza epocale, se si considera che oggi in Cina l’argomento è di fatto bandito dalla discussione politica e che la versione ufficiale delle proteste democratiche come “disordini controrivoluzionari” resta l’unica accettata. Vediamo, basandoci sulle recensioni pubblicate finora, quali sono gli elementi principali di “Prisoner of the state. The Secret Journal of Zhao Ziyang".
Prima di tutto i nomi e i cognomi, le accuse  ai vertici del partito, senza risparmiare Deng. Di Li Peng, allora primo ministro, dipinge l’immagine di un uomo senza scrupoli, determinato ad andare fino in fondo. Lo accusa di aver approfittato della sua assenza - era in viaggio in Nord Corea - per far pubblicare sul Quotidiano del Popolo quel famoso editoriale che uccise ogni speranza di una soluzione pacifica nel braccio di ferro tra dimostranti e autorità: il 26 aprile 1989 i ragazzi di Piazza Tiananmen venivano etichettati come “elementi sovversivi e anti-socialisti”. Il punto di non ritorno verso il massacro. Poi Deng, il padrino, il grande vecchio, per molti anche in occidente il grande saggio: e invece Zhao lo presenta come l’artefice della repressione, uno di quelli che mai avrebbero rinunciato alla dittatura del partito unico, fino alla paranoia finale che condusse nella notte tra il 3 e il 4 giugno all’intensa sparatoria che  Zhao dice di aver udito dal cortile di casa. Non è vero che la decisione di mandare le truppe a ripulire la piazza con la violenza fu presa dopo una votazione dei membri del Politburo, continua l’ex segretario del PCC: fu un ordine proveniente dall’alto in spregio ad ogni norma procedurale interna. Ma anche dal punto di vista delle riforme economiche ce n’è per il Piccolo Timoniere. Zhao si attribuisce il merito di aver concepito per primo, fin dall’inizio degli anni ‘80, la svolta economica che avrebbe poi caratterizzato il boom cinese e lascia Deng in un secondo piano. Dal punto di vista politico, l’autore delle memorie chiarisce la sua posizione senza infingimenti: fino al 1986 era convinto che da sola la riforma economica sarebbe stata sufficiente, ma nel triennio 1986-1989 cominciò a maturare una visione diversa, quella secondo cui anche il cambio politico, l’apertura al confronto, una maggiore libertà di espressione fossero necessarie per condurre in porto il rinnovamento. Non così Deng, che rimase sempre chiuso ad ogni opzione reale di cambiamento e anche quando parlava di riforme politiche in realtà aveva in mente solo ritocchi amministrativi.
Fu questa visione riformatrice a portarlo in piazza per rivolgersi agli studenti e a sancire la rottura con la vecchia guardia, gelosa delle sue posizioni di privilegio e di monopolio del potere, che cercava in ogni modo di far arretrare l’orologio della storia. Le sue posizioni erano così osteggiate, continua Zhao, che spesso era costretto a rivestire di un linguaggio burocratico, gradito al vertice, le proposte innovatrici: per esempio, le misure liberalizzatrici in economia venivano vendute come una fase transitoria verso il raggiungimento della società socialista. Sugli studenti il suo giudizio rivela alcuni problemi di interpretazione: secondo lui la più grande richiesta di libertà nella storia cinese si poteva risolvere con alcune piccole correzioni degli errori di gestione. Non volevano il rovesciamento del sistema, afferma, ma la sua rettifica. Risulta difficile credere a questa versione, che probabilmente fu quella con cui lo stesso Zhao provò a convincere il Politburo, finché gli fu permesso, a non usare la forza contro i civili e che finì per assimilare come la unica realtà. Qui emerge un aspetto della figura di Zhao Ziyang che sarebbe un errore non sottolineare: nonostante la sorte comune, gli arresti domiciliari, Zhao non era un Aung San Suu Kyi cinese. Non era un leader di opposizione, nemmeno di una fazione interna al Partito. Era un membro di primo piano di quello stesso Partito che nelle sue memorie critica così aspramente e non ne uscì finché non fu spodestato. Era un uomo che certamente non voleva sparare agli studenti ma che comunque voleva salvare il Partito e il suo potere. E’ per questo che ciò che più sorprende nelle sue memorie è, a mio avviso, il suo riconoscimento del valore della democrazia parlamentare come unico strumento possibile per il governo della nazione cinese: il suo richiamo alla necessità di un sistema multipartitico, della libertà di stampa e di un giudiziario indipendente, potrebbero essere tranquillamente sottoscritti dai promotori della Charta 08, il documento che lo scorso dicembre ha scosso la scena politica cinese. Sarà quindi interessante vedere come reagirà la generazione di leader attualmente al potere all’uscita del libro, che sarà tradotto in cinese a breve. Anche se ovviamente sarà bandito in Cina, la sua eco non potrà non giungere fino alle segrete stanze di Zhongnanhai, dove siedono gli eredi degli autori di quella repressione. Quando si parla del governo cinese va sempre tenuto presente che senza Tiananmen, senza quel bagno di sangue, gli attuali detentori del potere non sarebbero oggi dove sono. L’attuale classe dirigente che regna a Pechino è figlia di quel massacro, e chi fa finta di dimenticarselo rende uno scarso servizio alla verità. Il ventennale della strage era già un grattacapo non da poco per Hu Jintao e compagnia. Con Zhao che parla dalla tomba rischia di diventare un piccolo grande incubo.

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