23 mar 2009

Birmania. Dentro il Tatmadaw.



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Forte di più di quattrocentomila effettivi, il Tatmadaw - l'esercito birmano - è il vero ed assoluto padrone dei destini della nazione. Data la sua identificazione con il potere politico, al vertice del quale si trova la giunta militare capitanata dal generalissimo Than Shwe, è l'unica istituzione in grado di determinare la direzione di marcia del paese. Fino ad oggi, nei 47 anni di dominio ininterrotto, il cammino indicato è stato una corsa verso l'abisso. Fondato dal generale Aung San (il padre di Aung San Suu Kyi), il Tatmadaw resta per molti versi un oggetto misterioso, impermeabile e sconosciuto. Sono pochi gli analisti politici che hanno osato addentrarsi nei meccanismi che ne regolano il funzionamento e l'espansione, a causa anche della scarsità di informazioni provenienti dall'interno del regime. Ma ancora più complesso è comprendere i meccanismi psicologici, al limite della paranoia e delle superstizione che regolano le decisione delle alte sfere militari. Lo stesso Than Shwe ha costruito la sua carriera nei reparti speciali incaricati di delineare le strategie di guerra psicologica e la sua ossessione per la numerologia è nota, come d'altra parte quella del suo più illustre predecessore, quel generale Ne Win che per decenni ha dominato la scena con la sua cervellotica e fallimentare via birmana al socialismo. Opportunismo e fame di potere a parte, cosa spinge la casta militare ad inaugurare una nuova imponente pagoda nella capitale della giungla, Naypyidaw, e contemporaneamente a ordinare i massacri di monaci nelle strade del paese? Sulla rivista dell'esilio Irrawaddy è stata pubblicata qualche giorno fa una breve ma interessante analisi della mentalità dei soldati del Tatmadaw: attraverso quale processo si ottiene la fedeltà assoluta dei quadri intermedi o dei reparti incaricati della difesa e della repressione? Una miscela di lavaggio del cervello, prospettive di carriera e l'intima convinzione di una superiorità morale rispetto al resto della popolazione: queste alcune delle possibili risposte. "Nella visione dei soldati - si legge nell'articolo - la gente comune e i funzionari civili vivono vite più semplici. Sono indisciplinati e hanno molte ore di ozio a disposizione. Così i militari credono di avere il diritto esclusivo di detenere il potere dello stato per il loro duro lavoro e i sacrifici che compiono". E ancora, rispetto alla violenza nei confronti delle proteste di piazza: "Quando l'esercito interviene sui manifestanti pacifici, li vede come pigri opportunisti che rivendicano diritti umani senza lavorare duro. L'esercito, in un certo senso, incolpa la gente per il mancato sviluppo del paese". Ci sono elementi per credere che questo sentimento da missionari armati sia effettivamente presente nella psicologia dei generali e in genere nei ranghi dell'esercito. Nelle poche occasioni in cui giornalisti e scrittori hanno potuto avere incontri ravvicinati con i vertici della giunta, è emersa dalle loro dichiarazioni la convinzione che senza il controllo dell'apparato militare il paese scivolerebbe nel caos e nell'ingovernabilità. Personalmente credo che molti alti esponenti dell'SPDC disprezzino sinceramente la popolazione civile e si considerino come gli unici in grado di reggere le sorti del paese. Il che porta inevitabilmente ad una continua e costante negazione della realtà, lacerata da decenni di sperpero, ladrocinio, corruzione e isolamento, e all'interpretazione della repressione come un elemento necessario, quasi una forma di servizio reso alla nazione contro gli elementi sovversivi che attentano alla stabilità. "I militari - continua l'analisi - non si integrano con la popolazione nemmeno quando sono destinati a funzioni civili, perché sono addestrati per mantenersi alla dovuta distanza. Gli ufficiali che mostrano di comprendere le condizioni di vita delle persone sono sollevati dai loro incarichi. I capi militari che si sono ritirati dall'esercito rimangono isolati. Molti leaders hanno una paura folle di andare in pensione perché non conoscono altri modi di vivere o di pensare".
Ma a loro ci pensa Than Shwe. Un brillante articolo di Asia Times esamina la struttura organizzativa di quell'enorme macchina burocratica che è diventata l'esercito birmano: espansione illimitata dei ranghi, creazione di nuove posizioni ad hoc, promozioni e prebende utilizzate per comprarsi la fedeltà dei comandanti e dei quadri intermedi. E' datata novembre 2001 la riorganizzazione delle forze armate che ha determinato una vera e propria esplosione dei vertici militari: da due ufficiali di rango equivalente a generale maggiore si è passati a ventiquattro posizioni assegnate ad ufficiali con la qualifica di generale e luogotenente generale. Da un ufficio operazioni speciali (l'organismo di controllo sui comandi regionali) a quattro, con ulteriori divisioni al loro interno. Inoltre sono state create le nuove posizioni di comandante in capo della marina, dell'aviazione e dell'esercito di terra oltre ad uffici per l'industria della difesa, per la difesa aerea e per l'addestramento. L'analisi descrive una struttura piramidale che funziona - fatte salve le differenze - secondo uno schema che commercialmente si definirebbe di multilevel marketing. Gli ufficiali di grado superiore provvedono al reclutamento degli effettivi e godono di benefici in termini di carriera (e conseguentemente di retribuzione) fintantoché la piramide continua la sua espansione. Ovviamente a guadagnarci alla fine sono solo i vertici mentre per il grosso delle truppe rimangono i resti. Ma l'esigenza è quella di ingrossare le file il più possibile e di garantire posizioni di privilegio ad un numero sempre maggiore di alti ufficiali, in modo da cementarne la fedeltà all'istituzione militare. E' un meccanismo che si autoalimenta, finalizzato al mantenimento del potere assoluto sulla società birmana. Than Shwe ha imposto questa crescita mostruosa mosso da due obiettivi principali: il primo, come detto, quello della fidelizzazione attraverso l'aumento delle opportunità di promozione; il secondo, più strategico, rappresentato dalla volontà di ridurre il potere dei comandanti regionali che, il più delle volte impegnati in conflitti etnico-territoriali con i gruppi armati delle minoranze, erano di fatto diventati signori della guerra locali, arrivando ad acquisire posizioni di preminenza rispetti agli stessi ministeri. Da qui la loro esclusione dalla ristretta cerchia dei membri della giunta e la sostituzione con elementi più giovani provenienti dai ranghi inferiori, meno potenti e più malleabili. Ma da qui anche la necessità di trovare posizioni di rilievo all'interno della gerarchia per i comandanti sollevati dall'incarico e la conseguente creazione delle figure di luogotenente generale.
Inoltre la quasi inestricabile commistione tra apparato militare e burocrazia civile - dei 32 ministeri solo sette sono assegnati a non militari o a ex militari - fa sì che la stessa espansione incontrollata si riscontri all'interno della pubblica amministrazione. Una tendenza destinata ad accentuarsi ancor più dopo che le elezioni controllate dal regime previste per il 2010 faranno spazio ad un governo teoricamente non militare (anche se di fatto ancora sotto la tutela dell'esercito): è già cominciata la corsa ai ministeri più influenti e strategici, in modo da evitare qualsiasi soluzione di continuità nei consolidati meccanismi di arricchimento personale e famigliare. Altri spazi da riempire nell'elefantiaca struttura delle forze armate.

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