24 dic 2008

Cina. C'è chi dice no.



La Cina celebra se stessa a trent'anni dall'inizio delle riforme economiche lanciate dal piccolo timoniere alla fine del 1978. Ne ha ben donde. Anche i più critici devono riconoscere che l'impresa di sollevare dalla povertà un terzo abbondante della popolazione è opera colossale. Ma la Cina non è ancora un paese moderno e non solo perché centinaia di milioni di persone non si sono accorte di quanto avvenuto. E' sul piano politico e ideologico che il ritardo accumulato appare al momento incolmabile a causa di una classe politica arroccata al potere e ossessionata dal controllo. E' stata la settimana degli arresti dei promotori della Carta 08, il manifesto della dissidenza che ha riunito più di tremila adesioni tra i diversi gruppi sociali del paese. Non solo intellettuali e attivisti politici ma anche classi medie e persino funzionari del partito, ciò che preoccupa non poco i dignitari di Zhongnanhai alle prese con un ingombrante ventennale, quello del massacro di Tiananmen, il 4 giugno prossimo. Ma altri episodi, apparentemente marginali e tuttavia significativi per capire il contesto socio-politico in cui si muove l'ex grande proletaria, si sono verificati di recente. Sono storie di ribellione civile ai tentativi di imporre il silenzio ai mezzi di comunicazione, una battaglia finora vinta con ampio margine dal regime ma sempre più difficile da condurre. Il primo caso è quello di una rivista economica della Mongolia interiore, la terza provincia cinese per estensione. L'ufficio regionale per le pubblicazioni e la stampa, organo del partito comunista, ha sospeso per tre mesi dalle pubblicazioni il China Business Post per un articolo in cui si denunciavano presunte malversazioni ad opera di una banca appartenente all'Agricultural Bank of China, uno dei colossi della finanza del paese. Fin qui tutto normale o quasi, vista la facilità sanzionatoria degli organismi ufficiali quando si tratta di questioni sensibili. La novità è rappresentata in questo caso dalla denuncia presentata davanti ad una corte locale dalla giornalista autrice dell'articolo, Cui Fan, contro l'organismo di vigilanza del partito. Un caso senza precedenti che, anche se ha ben poche possibilità di arrivare all'esame del tribunale, rappresenta una rottura con la sudditanza psicologica o la rinuncia a far valere le proprie prerogative che hanno sempre caratterizzato l'atteggiamento della stampa di fronte alle intimidazioni e alle censure del potere. Cui Fan allega che le ragioni addotte per la sospensione e il provvedimento adottato non rispondono ad alcuna disposizione legale e che sono pertanto in contrasto con l'ordinamento giuridico cinese. E' una costante degli ultimi tempi questo richiamo alle leggi e alla costituzione da parte degli attivisti per la democrazia o in genere di coloro che non accettano supinamente i diktat del partito. Agire in base alla legalità vigente ha lo scopo di dimostrare che è il partito a non rispettare le sue stesse norme, che è il potere costituito a muoversi nell'illegalità. Si tratta di smascherare l'arbitrio e l'impunità che contraddistinguono gli atti delle autorità politiche ed amministrative in pregiudizio dei singoli cittadini. L'articolo, la sospensione e la conseguente denuncia arrivano in un momento particolarmente delicato per l'ABC, impegnata in un ampio processo di ristrutturazione interna a livello umano e finanziario. Ma invece di interpellare direttamente i tribunali, chiamandoli in causa per giudicare un presunto caso di diffamazione a mezzo stampa, la banca ha preferito rivolgersi direttamente all'autorità politica per chiedere protezione. Un comportamento che non sorprende in assenza di uno stato di diritto: dove la mafia governa a chi ti rivolgi se pensi di aver subito un torto? Al boss locale, mica a un giudice. Anche se la vicenda verrà progressivamente annegata nel silenzio, il coraggio di Cui Fan e della rivista per cui scrive aprono spiragli interessanti per l'esercizio della professione giornalistica in Cina: "Altri giornalisti porteranno in futuro davanti alle corti situazioni simili. Le autorità di propaganda del partito dovranno essere più caute ed attente ad emettere sanzioni amministrative nei confronti dei media", afferma un professore di scienze politiche alla stessa università del PCC. La seconda storia vede come protagonisti il direttore di una influente pubblicazione vicina ad alcuni settori della nomenclatura (quelli che sanno direbbero i più progressisti) e un ufficiale del ministero della cultura, che gli ha fatto visita per invitarlo alle dimissioni a causa di una serie di articoli in cui la figura di Zhao Ziyang, ex segretario del partito caduto in disgrazia dopo la rivolta di Tiananmen e da allora cancellato dall'iconografia ufficiale, era dipinta sotto una luce positiva. La coincidenza non è casuale, visto che come detto fra pochi mesi ricorre il ventesimo della protesta e della repressione, un argomento tabù per la storiografia ufficiale in Cina e un mal di testa costante per i padroni del pensiero, ancora alle prese con la necessità di prevenire quasiasi riferimento a quei fatidici giorni. Ma Du Dhaozen, il direttore ottantacinquenne, sapeva di poter contare su appoggi importanti. E' forse per questo che ha rifiutato ogni invito ad un pensionamento anticipato e ha rilanciato con un articolo di 10000 battute interamente incentrato su Zhao, da pubblicare nel prossimo numero dello Ynahuang Chunquiu (questo il nome del magazine). C'è chi dice no, insomma, anche se si tratta di casi isolati. Più generalizzata e comune è la repressione quotidiana della libera circolazione delle idee. E' di pochi giorni fa la notizia dell'oscuramento di diversi siti web tra cui BBC, VOA e RSF, provvisoriamente sbloccati durante le Olimpiadi su richiesta dei giornalisti stranieri. Da martedì sono di nuovo out e la tendenza alla censura massiva è destinata a continuare nel 2009, annus horribilis almeno potenzialmente per i mandarini di Pechino, visto che, Tiananmen, crisi economica e rischi connessi a parte, farà anche mezzo secolo dall'occupazione cinese del Tibet, quella che la propaganda chiama "liberazione dei tibetani dal giogo feudale". Troppi scheletri nell'armadio, rischia di saltare la chiave.

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