19 nov 2008

Tibet. Una necessaria introspezione.



A Dharamsala, la località indiana sede del governo tibetano in esilio, si sta svolgendo in questi giorni una riunione senza precedenti. Circa 500 attivisti, leaders politici e spirituali della diaspora si sono dati appuntamento per mandare in pensione il Dalai Lama. Detta così può sembrare una follia ma, anche a voler sfumare un poco, il fatto è che al centro del dibattito c'è l'opportunità o meno di proseguire su quella Via di Mezzo indicata da Tenzin Gyatzo che, per decenni, ha costituito l'unica direzione di marcia dei tibetani nelle relazioni con il governo cinese. Dal punto di vista strettamente politico la Via di Mezzo è la scelta dell'autonomia territoriale anziché dell'indipendenza; ma sotto un profilo più ampio è anche la ricerca costante del compromesso e del dialogo con l'occupante cinese. Una strategia che, dati alla mano, non ha prodotto nessun risultato concreto per la popolazione tibetana ed ha anzi portato ad un intensificarsi della repressione e ad una cinesizzazione sempre più marcata della regione. Lo stesso Dalai Lama, la settimana scorsa, ha espresso per la prima volta - e certamente in ritardo - una personale frustrazione per l'assenza di progressi nelle relazioni bilaterali e per la continua campagna di annichilimento culturale orchestrata da Pechino. Da qui la riunione dei cinquecento e la possibilità di confrontarsi per la prima volta sulle prospettive della lotta dei tibetani per i loro diritti. Il Dalai Lama non ci sarà e probabilmente è un bene. La sua figura e la sua predicazione non violenta, così apprezzate in occidente, sono diventate alla lunga un ostacolo per le rivendicazioni di un popolo oppresso. Tanto è vero che l'ala più “radicale” - come viene comunemente battezzata dai media - del Tibetan Youth Congress spinge già da tempo per una politica meno conciliante nei confronti delle autorità cinesi, che hanno dimostrato di saper sfruttare molto bene le debolezze della controparte, fingendo aperture di facciata e usando il bastone della repressione quando la situazione lo ha richiesto. E' successo l'ultima volta lo scorso marzo, quando l'insoddisfazione accumulata in questi decenni ha trovato sfogo in una rivolta urbana in cui sono stati proprio i più giovani a rompere le righe della disciplina imposta da Pechino. Proprio quell'esperienza, ancora un volta stroncata sul nascere, ha provocato una brusca accelerazione degli eventi. La linea del Dalai Lama è apparsa improvvisamente superata dalla storia e l'assemblea in corso costituisce già di per sé, a prescindere dalle deliberazioni finali, un primo passo verso la sua revisione.
Il grande assente, osservano alcuni, è però il popolo tibetano. I partecipanti provengono tutti dall'esilio e non è detto che rappresentino fino in fondo le voci di chi sotto il giogo cinese continua a viverci. La Cina, noto campione di rappresentatività popolare, ha quindi buon gioco nello sminuire il significato dell'evento, dichiarando che i presenti a Dharamsala non parlano certo a nome della maggioranza dei tibetani. Il Partito Comunista Cinese dimostra però di non credere alle sue stesse parole quando minaccia l'assemblea, facendo sapere che qualsiasi svolta indipendentista sarebbe destinata al fallimento. E proprio sui tibetani ricadrebbero le conseguenze politiche e militari di un'eventuale radicalizzazione delle posizioni. Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo dell'esilio, ricorda che l'ultima decisione spetterà comunque al parlamento. Altri però spostano il focus del dibattito oltre la questione autonomia-indipendenza: il portavoce Thupten Samphel fa sapere che il meeting "non è stato convocato per decidere la separazione del Tibet dalla Cina ma per recuperare i diritti umani dei tibetani in Tibet". E' qui che si gioca il futuro della causa tibetana: spostare semplicemente la lotta verso l'obiettivo dell’indipendenza consentirebbe a Pechino di presentare la regione autonoma come un focolaio di separatismo e terrorismo, come sta avvenendo per lo Xinjiang; mettere invece il rispetto dei diritti umani al centro di ogni rivendicazione politica, oltre ad essere una posizione moralmente superiore, farebbe immediatamente pendere l'ago della bilancia dalla parte dei tibetani contribuendo ad evidenziare la vera natura della presenza cinese in Tibet anche agli occhi della pigra diplomazia internazionale. Difficile comunque che dalla settimana di dibattiti a Dharamsala emergano figure di spicco in grado di sostituire la storica guida spirituale, almeno a breve termine. Quel che è certo però è che l'epoca e l'epica del Dalai Lama come leader politico sembrano ormai al capolinea.
Anche su Il Foglio online (solo a pagamento).

P.S. Scrivevo qualche mese fa su Ideazione:

Anche se forse non preludono ad una spaccatura netta, le posizioni dei cosiddetti “radicali”, quelli che puntano ad alzare il profilo della contestazione anti-coloniale, segnalano certamente un disagio all’interno del movimento. Non è solo la contrapposizione fra richieste di autonomia e aspirazioni all’indipendenza a dividere vecchie e nuove generazioni, ma soprattutto la necessità di una risposta seria alla domanda che pochissimi finora hanno osato formulare: quale risultato concreto, quale miglioramento reale nelle vite di milioni di tibetani ha prodotto mezzo secolo di “moderazione” e di “compromesso” nei confronti di un potere che non ha esitato a compiere – per usare le parole dello stesso Dalai Lama – un vero e proprio genocidio culturale? Se è vero che l’obiettivo di Tenzin Gyatso è “la ricerca della verità” a lungo termine e che l’insegnamento dei maestri buddhisti considera la lotta tra il bene e il male come una condizione permanente (cfr. intervista a Carlo Buldrini su Ideazione del 26 marzo scorso), sarebbe peraltro miope non riconoscere nella sofferenza di questo popolo una richiesta di aiuto non più rinviabile. A voler essere cinici, la storia dei due Tibet è purtroppo anche l'interminabile cronaca di un fallimento.
Alla luce degli attuali avvenimenti sembra che non fossi così lontano dalla realtà.

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