Birmania. La sfida dei religiosi. Oggi i monaci birmani hanno alzato il livello della protesta. A Yangon si sono disposti in fila indiana per marciare verso la Shwedagon Pagoda,
il luogo più sacro del paese, tra gli applausi dei presenti. Le squadre
del regime hanno bloccato gli accessi al tempio ma non sono intervenute
a disperdere la manifestazione. La stessa scena si è ripetuta quasi
simultaneamente in diverse località della Birmania
dove gruppi di monaci, in maggioranza giovani, hanno sfidato
apertamente il regime in una contrapposizione le cui conseguenze sono
ancora tutte da scrivere. In un gesto di ribellione clamoroso e
umiliante, i buddisti minacciano di rifiutare le tradizionali elemosine
offerte dai militari e dalle loro famiglie, in risposta alle mancate
scuse dei responsabili dei pestaggi di Pakokku, due settimane fa. A Sittwe gli scontri si sono ripetuti e gli ufficiali dell’esercito hanno usato i lacrimogeni.
Come già spiegato la situazione è delicata per i detentori del potere: schiacciare come mosche la popolazione civile è un conto, fare lo stesso con la casta dei religiosi un altro. Intanto l’occhio della comunità internazionale si sta lentamente aprendo sui fatti birmani. Purtroppo nelle prossime settimane il dibattito si sposterà alle Nazioni Unite dove presumibilmente si arenerà. Ma la realtà di una nazione stremata ha il sopravvento. Le proteste di questi giorni non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’88 per imponenza e partecipazione - non ancora almeno - ma stanno ottenendo una risonanza infinitamente maggiore grazie soprattutto all’immediatezza della diffusione delle notizie nell’era del digitale. Quando diciannove anni fa l’esercito soffocò nel sangue la ribellione civica di studenti e monaci praticamente nessun mezzo di comunicazione era presente e i testimoni diretti delle proteste e del conseguente massacro non ebbero nessuna possibilità di raccontarlo. Oggi una fotografia rubata o un messaggio telefonico sfuggito alle maglie della censura sono sufficienti ad innescare una serie di reazioni a catena in grado di finire in pochi minuti sulla prima pagina dell’edizione online del NYT. Persino in un paese isolato, controllato e tecnologicamente arretrato come la Birmania questo meccanismo dimostra di poter essere vincente ed il suo impatto in una società per molti aspetti arcaica e tagliata fuori dai circuiti internazionali merita di essere attentamente studiato.
Come già spiegato la situazione è delicata per i detentori del potere: schiacciare come mosche la popolazione civile è un conto, fare lo stesso con la casta dei religiosi un altro. Intanto l’occhio della comunità internazionale si sta lentamente aprendo sui fatti birmani. Purtroppo nelle prossime settimane il dibattito si sposterà alle Nazioni Unite dove presumibilmente si arenerà. Ma la realtà di una nazione stremata ha il sopravvento. Le proteste di questi giorni non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’88 per imponenza e partecipazione - non ancora almeno - ma stanno ottenendo una risonanza infinitamente maggiore grazie soprattutto all’immediatezza della diffusione delle notizie nell’era del digitale. Quando diciannove anni fa l’esercito soffocò nel sangue la ribellione civica di studenti e monaci praticamente nessun mezzo di comunicazione era presente e i testimoni diretti delle proteste e del conseguente massacro non ebbero nessuna possibilità di raccontarlo. Oggi una fotografia rubata o un messaggio telefonico sfuggito alle maglie della censura sono sufficienti ad innescare una serie di reazioni a catena in grado di finire in pochi minuti sulla prima pagina dell’edizione online del NYT. Persino in un paese isolato, controllato e tecnologicamente arretrato come la Birmania questo meccanismo dimostra di poter essere vincente ed il suo impatto in una società per molti aspetti arcaica e tagliata fuori dai circuiti internazionali merita di essere attentamente studiato.