13 sept 2007

Birmania. Pensieri sparsi/9. La Birmania in una foto. Un uomo di sei-sette anni, in equilibrio sulla sua barca, il volto serio a fissare un obiettivo che vergognosamente lo ritrae, forse per la prima volta. L’infanzia è finita da un pezzo e a casa c’è chi aspetta qualcosa da mangiare la sera o da vendere al mercato il giorno dopo. Noi a pochi metri, senza nemmeno il coraggio di rivolgergli una parola, di chiedere il suo nome. Troppo duro quello sguardo, troppe domande senza risposta.
La situazione dei bambini birmani è spaventosa. Nonostante le statistiche ufficiali, meno della metà della popolazione infantile frequenta le scuole primarie e secondarie e solo un quarto le conclude regolarmente. L’educazione è garantita nelle fasi iniziali, dopodiché le famiglie devono sobbarcarsi ogni spesa: l’abbandono scolastico è persino una ovvietà in queste condizioni e lo sfruttamento minorile è la regola. Appena si è in grado di sostenere un peso o di muoversi con le proprie gambe si diventa carne da lavoro: i più fortunati servono in qualche bar, agli altri tocca la fatica del campo o la calca dei centri urbani. L’arcadia dei primi anni di vita, quando ancora non puoi essere e non puoi sapere, lascia ben presto il posto alla quotidiana lotta per la sopravvivenza. Non c’è tempo, bisogna crescere in fretta. E sembra tutto così scontato che a tratti ti scopri ad osservare senza più nemmeno stupirti, come se la banalità del male prendesse naturalmente il sopravvento sulla dignità umana.
Secondo stime recenti delle Nazioni Unite il tasso di mortalità nei primi dodici mesi si situa intorno al 77/1000 e quello al di sotto dei cinque anni si eleva al 109/1000. La diffusa pratica dei lavori forzati coinvolge anche i più piccoli. Inoltre è dell’esercito birmano il primato di bambini-soldato: si calcola che dai 50.000 ai 70.000 siano i minori reclutati dalle forze armate per servire la patria. Spesso l’arruolamento avviene nei quartieri degradati delle principali città, sotto la minaccia dell’arresto o di ritorsioni contro i familiari. In effetti non è difficile portarsi via un bambino in Birmania. Li trovi per strada fin dalla più tenera età, quasi sempre senza adulti al fianco. Si avvicinano perché la curiosità ha la meglio sulla paura, a volte allungano una mano, di solito si limitano a scrutarti. Quelli che sanno riconoscere la tua faccia di straniero ti chiedono di scambiare qualcosa: un sapone, una penna, una caramella. Se sono bambine sarà un rossetto a renderle adulte, come se la vita non bastasse. Si fanno avanti sorridendo, poche frasi in inglese imparate a memoria, se non hai nulla da dare ti strappano la promessa che tornerai. Sanno che non lo farai ma ti salutano ugualmente, con lo stesso sorriso. “Tata”, addio, non lasciarmi qui.
Ti fissano intensamente i figli della Birmania. Nel loro sguardo un perché che non permette repliche.

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