La premessa è erronea. A parte che il True Progressivism dell'Economist si riduce a tre idee piuttosto banalotte, un pout-pourri di destra e sinistra che non si sa da che parte prendere; il punto principale, però, è che perfino una delle riviste più prestigiose del mondo sembra confondere due concetti piuttosto diversi, la diseguaglianza e l'ingiustizia sociale. Si tratta di una visione moralistica del dato economico, tipica degli avversari del capitalismo che, perfino quando ne riconoscono i successi, non possono fare a meno di criticarne le intenzioni (atteggiamento uguale e contrario a quello riservato al socialismo). L'Economist non rientra ovviamente in questa categoria, ma il ragionamento in questione si avvicina pericolosamente a quello descritto. La mia opinione è che la diseguaglianza sociale non sia un problema di per sé, in un contesto di crescita dell'economia e di creazione della ricchezza, che è poi la condizione essenziale del capitalismo. Lo diventa - più a livello psicologico che reale - quando l'economia ristagna e lo sviluppo si ferma. Anche in questo caso, però, non si tratta di una questione di giustizia sociale, ma di impoverimento generale, che colpirà in maniera diversa a seconda delle situazioni di partenza. Per farla breve, se tutti diventiamo più ricchi e viviamo meglio, la diseguaglianza resta un fenomeno fisiologico, insito nella natura stessa delle cose umane. Se diventiamo tutti più poveri, oggettivamente il discorso non cambia, ma cambia la percezione del problema. L'unico caso in cui la diseguaglianza diventa intrinsecamente ingiusta, a mio avviso, si verifica quando, in un contesto di crisi economica, alcuni approfittano delle difficoltà dei più per arricchirsi in maniera esponenziale e soprattutto illegale. Ma sono casi estremi, che non servono comunque a dimostrare il teorema secondo cui diseguaglianza e ingiustizia sociale sarebbero sinonimi.
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