Washington-Pyongyang. Prove di dialogo.
Stephen Bosworth, il nuovo inviato per la Corea del Nord del Dipartimento di Stato americano, l'ha detto chiaro e tondo: "Noi con Pyongyang vogliamo il dialogo". E' la prima diretta conseguenza del viaggio di Hillary Clinton in Asia, che verrà ricordato probabilmente come l'inizio di una nuova era per l'America dopo gli otto anni (diciamo sei) di promozione della democrazia: torna alla ribalta il concetto di appeasement con i dittatori, la parola magica che piace tanto qui in Europa e che fa tanto statista, soprattutto se la chiamano engagement o dialogo. Stephen Bosworth è il degno successore di Christopher Hill, quello che ha speso due anni a farsi prendere in giro da Kim Jong Il, quello delle missioni impossibili, degli accordi definitivi con il regime, che infatti sono durati lo spazio di due giorni, quando Kim era di buon umore. Lui, Bosworth, ancora prima di essere confermato nell'incarico aveva spiegato che Pyongyang aveva una voglia matta di fare la pace con gli Stati Uniti, secondo una teoria cara al realismo da salotto che è tornato ad imperversare nello scenario internazionale. Una teoria che se ne frega della natura dei regimi e ragiona solo in termini di svantaggi e benefici, come se gli interlocutori fossero tutti uguali, come se la differenza fra uno stato-gulag e una democrazia fosse solo una questione formale, così formale che sarebbe un peccato che rovinasse il dialogo, come insegnano Hillary e Stephen.
Una formalità è stata certo la farsa elettorale che si è celebrata nel fine settimana nel regno comunista di Kim, con partecipazione del cento per cento e unanimità assoluta sui candidati unici scelti dal Partito. Ci mancherebbe altro. Curioso il comunicato diramato dalla KCNA e ripreso dalle nostre solerti agenzie (il cui senso dell'umorismo ormai dev'essere ai minimi termini) che annunciava la "rielezione" del Caro Leader. Proprio così, non è uno scherzo. Per trovare un motivo di interesse in questa cosa, gli osservatori si sono inventati la probabile apparizione (di figure al limite del religioso stiamo pur sempre parlando) nella "nuova" Assemblea del Popolo del terzogenito di Kim, quel Kim Jong-un che i pyongyangologi danno in pole position per succedere al padre, non si sa come, non si sa quando. Ora, lui, il Sol dell'avvenire è sembrato assai magro mentre faceva finta di votare per se stesso domenica scorsa. E questa forse, ammesso e non concesso che si trattasse proprio del Caro Leader, è certamente l'immagine più significativa di tutta questa messinscena.
Ma torniamo al dialogo, perché parlando la gente si capisce e così via. Stephen Bosworth avrà un bel da fare, sembra, vsto che il dialogo è cominciato la scorsa settimana con la più miserabile minaccia che un regime criminale possa concepire, quella di abbattere gli aerei civili sudcoreani che non solo attraversino il suo spazio aereo ma addirittura ci passino vicini. Ovviamente la diplomazia ha spiegato che non bisogna farci troppo caso, che i nordcoreani sono abituati ad alzare un po' i toni, che i ragazzacci di Pyongyang in realtà non volevano dire quel che hanno detto: un incredibile dispaccio dell'Associated Press riportava che non era ben chiaro cosa davvero intendessero i comunisti del nord quando affermavano che "la sicurezza dei voli sudcoreani non sarebbe stata garantita". Effettivamente non è chiaro se li tireranno giù con missili o cerbottane. Qualche tempo fa sarebbe bastato molto meno per far drizzare le antenne a Washington, particolarmente attenta, - si direbbe - a minacce concernenti mezzi dell'aviazione. Anche perché la Corea del Nord non è nuova a situazioni di questo genere: si ricordi l'attentato del 1987 con la bomba che uccise 115 passggeri a bordo del volo sudcoreano o l'incidente del 1969 quando un aereo americano in perlustrazione fu abbattuto con i suoi 31 uomini dell'equipaggio. Insomma ci sarebbe di che preoccuparsi, o almeno prendere sul serio le promesse del regime. Invece dal Dipartimento di Stato americano è arrivata la solita sonnolenta reazione: unhelpful, si sono limitate a dire fonti americane, non aiuta. Questa rischia di diventare un'espressione chiave nei prossimi anni: si distingueranno le azioni tra helpful e unhelpful. Immagino che non aiuti il dialogo, che zapaterianamente rischia di trasformarsi da mezzo (uno dei tanti) ad obiettivo in se stesso. La dichiarazione di Pyongyang ha i toni dell'ultimatum terrorista, senza se e senza ma: "inumana" l'ha definita Seul che, proprio mentre ritrova il nerbo perduto sotto le precedenti sunshine administrations deve fare i conti con un alleato che ha molta voglia di scopare la polvere sotto il tappeto e di non farsi troppo notare. Certo che, alla luce di fatti, anzi della retorica, sembra ancora più balzana la decisione di Bush di togliere la Corea dalla lista degli stati terroristi in cambio di un accordo sul disarmo che visto oggi sa di beffa colossale. Giugno 2008, questa la data in cui gli USA abdicarono al loro ruolo di protezione dei vicini e degli alleati dell'area e preferirono credere a Kim Jong Il. Su questo punto Obama sembra perfettamente in linea col suo predecessore.
Un'esercitazione congiunta tra Stati Uniti e Corea del Sud con migliaia di effettivi militari impegnati è stata l'occasione per un ulteriore innalzamento del livello di tensione. Il regime ha subito fatto sapere che considera questa manovra alla stregua di una aggressione e che è pronto a rispondere, dal momento che le sue truppe sono state poste in assetto di guerra. Prove di dialogo anche queste, si vede, che si aggiungono a quelle cominciate durante la visita del segretario di stato, accolta con la minaccia, l'ennesima, di un lancio di missili dalla postazione di Musudan-ri. Il missile deve ancora partire e nel frattempo fonti nordcoreane hanno fatto sapere che l'azione è prevista per l'inizio di aprile e che, nel caso "il satellite" dovesse essere abbattuto dai giapponesi o dagli americani, anche questo sarebbe interpretato come un atto di guerra con le conseguenze che si possono immaginare. Il fatto che finora alle parole non siano seguiti i fatti dipende principalmente dalla consapevolezza che, per quanto enorme e per quanto armato, l'esercito nordcoreano non sarebbe in grado di vincere una guerra contro il sud supportato dagli Stati Uniti. L'escalation verbale, però, indica anche che Pyongyang sta tastando il terreno e la determinazione della nuova amministrazione statunitense e che le risposte finora ottenute, blande a dir poco, al limite dell'appeasement, hanno dato fiato alle trombe e polvere ai cannoni del regime. Kim è debole, invecchiato, e ha bisogno di una prova di forza per dimostrare ai suoi - i generali, non l'opinione pubblica che non ovviamente non esiste - di essere ancora il leader senza macchia e senza paura e che sarà lui, e non altri, a decidere il futuro del paese, a partire dalla successione. E' un posto, il suo, che fa gola a molti, quadri dell'esercito, famigliari e potenti vicini (Cina soprattutto). Ma se Kim dimostra di avere ancora intatte le potenzialità di costruire la bomba, di poter lanciare missili sull'Alaska e di non farsi scrupoli ad abbattere aerei sudcoreani, non solo condiziona l'agenda americana nell'area ma fa capire che alla fine, nonostante tutti i tavoli a sei del mondo, è ancora una volta Sua Maestà a tenere il coltello dalla parte del manico e a tenere sotto scacco la diplomazia mondiale e i pretendenti al trono. Evviva il dialogo.
Stephen Bosworth, il nuovo inviato per la Corea del Nord del Dipartimento di Stato americano, l'ha detto chiaro e tondo: "Noi con Pyongyang vogliamo il dialogo". E' la prima diretta conseguenza del viaggio di Hillary Clinton in Asia, che verrà ricordato probabilmente come l'inizio di una nuova era per l'America dopo gli otto anni (diciamo sei) di promozione della democrazia: torna alla ribalta il concetto di appeasement con i dittatori, la parola magica che piace tanto qui in Europa e che fa tanto statista, soprattutto se la chiamano engagement o dialogo. Stephen Bosworth è il degno successore di Christopher Hill, quello che ha speso due anni a farsi prendere in giro da Kim Jong Il, quello delle missioni impossibili, degli accordi definitivi con il regime, che infatti sono durati lo spazio di due giorni, quando Kim era di buon umore. Lui, Bosworth, ancora prima di essere confermato nell'incarico aveva spiegato che Pyongyang aveva una voglia matta di fare la pace con gli Stati Uniti, secondo una teoria cara al realismo da salotto che è tornato ad imperversare nello scenario internazionale. Una teoria che se ne frega della natura dei regimi e ragiona solo in termini di svantaggi e benefici, come se gli interlocutori fossero tutti uguali, come se la differenza fra uno stato-gulag e una democrazia fosse solo una questione formale, così formale che sarebbe un peccato che rovinasse il dialogo, come insegnano Hillary e Stephen.
Una formalità è stata certo la farsa elettorale che si è celebrata nel fine settimana nel regno comunista di Kim, con partecipazione del cento per cento e unanimità assoluta sui candidati unici scelti dal Partito. Ci mancherebbe altro. Curioso il comunicato diramato dalla KCNA e ripreso dalle nostre solerti agenzie (il cui senso dell'umorismo ormai dev'essere ai minimi termini) che annunciava la "rielezione" del Caro Leader. Proprio così, non è uno scherzo. Per trovare un motivo di interesse in questa cosa, gli osservatori si sono inventati la probabile apparizione (di figure al limite del religioso stiamo pur sempre parlando) nella "nuova" Assemblea del Popolo del terzogenito di Kim, quel Kim Jong-un che i pyongyangologi danno in pole position per succedere al padre, non si sa come, non si sa quando. Ora, lui, il Sol dell'avvenire è sembrato assai magro mentre faceva finta di votare per se stesso domenica scorsa. E questa forse, ammesso e non concesso che si trattasse proprio del Caro Leader, è certamente l'immagine più significativa di tutta questa messinscena.
Ma torniamo al dialogo, perché parlando la gente si capisce e così via. Stephen Bosworth avrà un bel da fare, sembra, vsto che il dialogo è cominciato la scorsa settimana con la più miserabile minaccia che un regime criminale possa concepire, quella di abbattere gli aerei civili sudcoreani che non solo attraversino il suo spazio aereo ma addirittura ci passino vicini. Ovviamente la diplomazia ha spiegato che non bisogna farci troppo caso, che i nordcoreani sono abituati ad alzare un po' i toni, che i ragazzacci di Pyongyang in realtà non volevano dire quel che hanno detto: un incredibile dispaccio dell'Associated Press riportava che non era ben chiaro cosa davvero intendessero i comunisti del nord quando affermavano che "la sicurezza dei voli sudcoreani non sarebbe stata garantita". Effettivamente non è chiaro se li tireranno giù con missili o cerbottane. Qualche tempo fa sarebbe bastato molto meno per far drizzare le antenne a Washington, particolarmente attenta, - si direbbe - a minacce concernenti mezzi dell'aviazione. Anche perché la Corea del Nord non è nuova a situazioni di questo genere: si ricordi l'attentato del 1987 con la bomba che uccise 115 passggeri a bordo del volo sudcoreano o l'incidente del 1969 quando un aereo americano in perlustrazione fu abbattuto con i suoi 31 uomini dell'equipaggio. Insomma ci sarebbe di che preoccuparsi, o almeno prendere sul serio le promesse del regime. Invece dal Dipartimento di Stato americano è arrivata la solita sonnolenta reazione: unhelpful, si sono limitate a dire fonti americane, non aiuta. Questa rischia di diventare un'espressione chiave nei prossimi anni: si distingueranno le azioni tra helpful e unhelpful. Immagino che non aiuti il dialogo, che zapaterianamente rischia di trasformarsi da mezzo (uno dei tanti) ad obiettivo in se stesso. La dichiarazione di Pyongyang ha i toni dell'ultimatum terrorista, senza se e senza ma: "inumana" l'ha definita Seul che, proprio mentre ritrova il nerbo perduto sotto le precedenti sunshine administrations deve fare i conti con un alleato che ha molta voglia di scopare la polvere sotto il tappeto e di non farsi troppo notare. Certo che, alla luce di fatti, anzi della retorica, sembra ancora più balzana la decisione di Bush di togliere la Corea dalla lista degli stati terroristi in cambio di un accordo sul disarmo che visto oggi sa di beffa colossale. Giugno 2008, questa la data in cui gli USA abdicarono al loro ruolo di protezione dei vicini e degli alleati dell'area e preferirono credere a Kim Jong Il. Su questo punto Obama sembra perfettamente in linea col suo predecessore.
Un'esercitazione congiunta tra Stati Uniti e Corea del Sud con migliaia di effettivi militari impegnati è stata l'occasione per un ulteriore innalzamento del livello di tensione. Il regime ha subito fatto sapere che considera questa manovra alla stregua di una aggressione e che è pronto a rispondere, dal momento che le sue truppe sono state poste in assetto di guerra. Prove di dialogo anche queste, si vede, che si aggiungono a quelle cominciate durante la visita del segretario di stato, accolta con la minaccia, l'ennesima, di un lancio di missili dalla postazione di Musudan-ri. Il missile deve ancora partire e nel frattempo fonti nordcoreane hanno fatto sapere che l'azione è prevista per l'inizio di aprile e che, nel caso "il satellite" dovesse essere abbattuto dai giapponesi o dagli americani, anche questo sarebbe interpretato come un atto di guerra con le conseguenze che si possono immaginare. Il fatto che finora alle parole non siano seguiti i fatti dipende principalmente dalla consapevolezza che, per quanto enorme e per quanto armato, l'esercito nordcoreano non sarebbe in grado di vincere una guerra contro il sud supportato dagli Stati Uniti. L'escalation verbale, però, indica anche che Pyongyang sta tastando il terreno e la determinazione della nuova amministrazione statunitense e che le risposte finora ottenute, blande a dir poco, al limite dell'appeasement, hanno dato fiato alle trombe e polvere ai cannoni del regime. Kim è debole, invecchiato, e ha bisogno di una prova di forza per dimostrare ai suoi - i generali, non l'opinione pubblica che non ovviamente non esiste - di essere ancora il leader senza macchia e senza paura e che sarà lui, e non altri, a decidere il futuro del paese, a partire dalla successione. E' un posto, il suo, che fa gola a molti, quadri dell'esercito, famigliari e potenti vicini (Cina soprattutto). Ma se Kim dimostra di avere ancora intatte le potenzialità di costruire la bomba, di poter lanciare missili sull'Alaska e di non farsi scrupoli ad abbattere aerei sudcoreani, non solo condiziona l'agenda americana nell'area ma fa capire che alla fine, nonostante tutti i tavoli a sei del mondo, è ancora una volta Sua Maestà a tenere il coltello dalla parte del manico e a tenere sotto scacco la diplomazia mondiale e i pretendenti al trono. Evviva il dialogo.
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