Charta 08. Un'analisi. Articolo molto lungo.
Vorrei provare ad analizzare il contenuto e le implicazioni politiche della Charta 08, il documento firmato da almeno duemila (ma c’è chi dice settemila) cittadini cinesi in favore dell'instaurazione di un regime democratico e rispettoso dei diritti umani in Cina. Tra di loro attivisti, intellettuali, leaders rurali, avvocati, professori e perfino funzionari del partito di livello intermedio. La carta è stata resa nota il 10 dicembre, in occasione dell'anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, e si basa sull'analoga esperienza della Charta 77, il manifesto della dissidenza cecoslovacca, attorno a cui si costituì quel nucleo di resistenza che avrebbe portato dodici anni dopo alla fine del regime a partito unico. Proprio il superamento del monopolio politico del PCC e la costituzione di un gruppo informale di cittadini che si richiamano ai principi della carta sono i due campanelli d'allarme più preoccupanti per la dirigenza cinese. Esaminiamo nel dettaglio prima il testo del documento, poi la reazione del governo e infine le conseguenze che la Charta 08 potrebbe avere sul futuro della Cina.
In rete, dove il documento è stato diffuso, circolano due traduzioni del testo, la prima del giornalista Perry Link pubblicata sulla New York Review of Books, la seconda sul sito dell’organizzazione Human Rights in China. Pare che Link abbia fatto riferimento ad una prima bozza del documento, mentre quella di HRC sarebbe la versione definitiva, leggermente riveduta prima della pubblicazione. A livello di contenuti non vi sono differenze sostanziali tra i due scritti, fatta eccezione per un riferimento esplicito al massacro di piazza Tiananmen contenuto nel preambolo, che scompare nel testo finale, forse in seguito all’arresto preventivo di Liu Xiaobo (noto dissidente attivo fin dall’89 e primo firmatario della dichiarazione) avvenuto due giorni prima della sua diffusione. Farò riferimento alla versione di HRC, se non altro perché più sobria e per enfatizzare c’è sempre tempo. La Charta 08 si divide in tre sezioni: un lungo preambolo (forse la parte nel complesso più significativa), una dichiarazione di principi fondamentali e infine una serie di proposte. Dico subito che a mio avviso si tratta del documento più significativo mai prodotto dagli oppositori al regime comunista cinese, innanzitutto per il richiamo esplicito alla tradizione liberale e illuminista del costituzionalismo occidentale che pervade tutta la stesura e poi per il salto di qualità che suppone il non limitarsi ad esigere un processo riformatore interno al regime ma il proclamare la necessità di un suo superamento. I coraggiosi sottoscrittori certamente non incitano alla rivolta ma dichiarano esplicitamente di lavorare per una rivoluzione politica finalizzata all’instaurazione di una democrazia liberale al posto del partito-stato. Al di là delle conseguenza che a breve termine la Charta potrebbe avere (e a mio avviso non c’è dubbio che a lungo termine ne avrà di decisive), questo è già di per sé un fatto storico, una pietra miliare nella lotta per il riscatto civile del popolo cinese.
Il testo
- Il preambolo comincia con un riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici firmata anche dalla Cina e alla breve ma intensa esperienza del muro della democrazia, che per quasi un anno animò le spente strade di una Pechino che stava faticosamente provando a recuperarsi dall’incubo maoista. Segue immediatamente il riconoscimento della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti umani come “principi comuni e universali condivisi dall’intera umanità” e della democrazia e del governo costituzionale come strutture politiche essenziali alla protezione di questi valori fondamentali. Tradizione liberale allo stato puro ed anche il rifiuto netto di quella strana teoria, tanto cara agli autocrati e purtroppo accettata perfino da buona parte dell’opinione pubblica occidentale, secondo la quale esisterebbe una via cinese alla democrazia, un sistema alternativo di valori adattato alla realtà asiatica. La Charta fa piazza pulita di questa forma di paternalismo peloso e trasversale: solo la democrazia liberale è in grado di garantire i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo; ogni versione riveduta e corretta altro non è che una scusa per non cambiare.
Quale direzione prenderà la Cina del XXI secolo, si chiedono gli autori? Continuerà la sua “modernizzazione” all’interno di un sistema autoritario o riconoscerà i valori universali (di nuovo torna l’insistenza sul concetto di universalità dei diritti) aggiungendosi al novero delle nazioni civilizzate e costruendo un sistema politico democratico? Mi fermo ancora perché è importante estrapolare i concetti. Qui ce ne sono due: il primo è che quella cinese è una crescita economica senza una reale modernizzazione, perché solo una società aperta, in cui i cittadini possano liberamente esercitare le loro prerogative può consentire ad una nazione in via di sviluppo di diventare definitivamente un paese moderno; il secondo è che l’idea di civiltà deve essere intimamente legata al rispetto dei principi di libertà ed uguaglianza e dei diritti umani, e che in assenza di queste condizioni essenziali non si può parlare di contesto civile. Alla faccia di tutti i relativismi. Il preambolo prosegue con un rapido excursus dei regimi che dal XIX secolo ad oggi hanno governato la Cina. Quando arrivano alla vittoria dei comunisti del ’49 i firmatari denunciano “l’abisso totalitario” che da quegli eventi è derivato, responsabile di una “serie di catastrofi umanitarie” come la Campagna contro gli elementi di destra, il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e, sacrilegio, il 4 giugno, ovvero la data del massacro di piazza Tiananmen che compare qui nel testo per la prima e unica volta.
Pur riconoscendo che le riforme economiche del post-maoismo hanno portato ad un miglioramento delle condizioni sociali per una parte significativa della popolazione, i redattori constatano che il potere è rimasto arroccato alle sue posizioni di privilegio e di monopolio, rifiutando qualsiasi cambiamento significativo dal punto di vista politico: “in Cina ci sono molte leggi ma non esiste uno stato di diritto, c’è una costituzione ma non un governo costituzionale”, e soprattutto c’è un blocco di potere che “insiste nel perpetuare il regime autoritario”. Da qui la corruzione diffusa, il declino dell’etica, la polarizzazione sociale e lo sviluppo economico diseguale, l’impunità delle classi dirigenti. E ancora la mancata protezione della proprietà e gli ostacoli che il potere oppone alla "ricerca della felicità" (avete letto bene, la Charta prende a prestito l’esatta espressione della Dichiarazione di Indipendenza del 1776), con il progressivo aumento dei conflitti sociali per l’intensificarsi dell’ostilità tra ufficiali del governo e popolazione. Il cambiamento – conclude il preambolo – non è più rinviabile.
- La seconda parte del documento è dedicata all'enunciazione dei principi ispiratori della Charta. Al primo posto la libertà, declinata secondo il paradigma delle libertà negative, le libertà dallo stato: espressione, stampa, religione, riunione, movimento, protesta. Senza libertà non c'è civiltà possibile. La difesa dei diritti umani si richiama espressamente alla tradizione giusnaturalistica: i diritti non sono concessi dallo stato ma inerenti alla persona umana fin dalla nascita. Lo stato esiste solo per garantire la protezione di questi diritti ed il loro libero esercizio. Basterebbe questo enunciato da solo ad aprire e chiudere l'intera dichiarazione. Si tratta della più netta difesa dell'universalità dei diritti umani mai pronunciata in territorio cinese. Un concetto di per sé così evidente che risulta incomprensibile come possa essere messo continuamente in discussione non solo (ovviamente) dal potere costituito, ma anche da ampi settori all'interno della stessa popolazione cinese (e qui i motivi possono essere molteplici) e da buona parte dell'opinione pubblica occidentale (in questo caso si tratta invece solo di cattiva coscienza o ignoranza). Poi l'uguaglianza, degli individui tra di loro e di fronte alla legge. Si parla sempre di singoli, mai di comunità, il messaggio è rivoluzionario per la Cina. L'uguaglianza è nei diritti, non necessariamente nelle condizioni, nelle situazioni di partenza, non in quelle finali. Il repubblicanesimo, inteso come bilanciamento dei poteri tra i diversi organi dello stato e degli interessi dei diversi gruppi sociali, che devono poter esprimersi in un clima di giustizia e correttezza istituzionale. La democrazia, il governo "dal popolo, attraverso il popolo, per il popolo". La sovranità popolare è l'unica fonte di legittimazione delle classi dirigenti. Le mura di Zhongnanhai registrano a questo punto una scossa. Solo i cittadini e non il partito che ne ha sequestrato le prerogative politiche possono decidere chi li governerà. Diritto di voto, elezioni regolari e rispetto delle minoranze. Infine il costituzionalismo, il riconoscimento delle libertà e dei diritti e la loro protezione all'interno della costituzione, ma soprattutto una chiara definizione dei limiti dell'azione governativa, sottoposta anch'essa alle regole dello stato di diritto. Il contrario di quanto sta avvenendo nella Cina attuale. Occore passare - chiosano gli autori - da un sistema in cui il cittadino si affida totalmente alla benevolenza dei suoi governanti, ad un contesto in cui egli diventi protagonista in prima persona dello sviluppo della nazione in cui vive, sviluppando una coscienza civile in un contesto in cui i diritti corrispondano alle responsabilità. L'autoritarismo è in declino ovunque - si nota - e anche per la Cina deve finire l'era dei poteri imperiali, dell'assolutismo di qualsiasi colore.
- Da qui una serie di proposte che costituiscono la terza ed ultima parte del documento. Sono 17 punti, alcuni dei quali forse entrano troppo nel dettaglio rischiando di attenuarne la solennità, più proposte elettorali che dichiarazioni di principio: parlo ad esempio della riforma fiscale (che però contiene il fondamentale principio della no taxation without representation), della protezione dell'ambiente o della creazione di una repubblica federale (una prospettiva al momento difficilmente concretizzabile). Ma questa sezione contiene altri elementi di portata dirompente. L'abolizione di tutte quelle disposizioni costituzionali non in linea con il principio della sovranità popolare: in pratica la cesura drastica con i pilastri che reggono attualmente l'edificio del regime. Il principio della separazione dei poteri e la chiara definizione dell'autorità del potere centrale, sia in chiave politico-amministrativa che territoriale. L'elezione diretta di tutti i corpi legislativi. Altro che voto a livello di villaggi, pratica truffaldina su cui si sta costruendo una letteratura scandalosamente apologetica volta ad accreditare una presunta volontà riformatrice dei gerarchi del PCC. L'indipendenza del potere giudiziario dai diktat del partito e la conseguente abolizione di quei Comitati Politici e Legislativi attraverso cui la struttura di potere controlla e condiziona l'amministrazione della giustizia. Primo avviso ai naviganti. Sottrazione delle forze armate al controllo del partito. L'esercito deve rispondere solo alla costituzione e mantenere la neutralità, così come gli altri corpi di pubblica sicurezza a cominciare dalla polizia. Divieto di discriminazioni tra i pubblici ufficiali a seconda dell'appartenenza politica. Secondo avviso ai naviganti. Creazione di una commissione per i diritti umani contro gli abusi del potere (in uno stato di diritto però dovrebbero bastare i tribunali ordinari, almeno in teoria); abolizione del sistema carcerario chiamato rieducazione attraverso il lavoro, uno dei cardini dell'arcipelago-gulag cinese. Elezione dei pubblici ufficiali secondo il principio una persona un voto. Abolizione dell'attuale sistema di registrazione per i lavoratori che dalle campagne si trasferiscono nelle città, fonte di palesi disuguagliaze tra cittadini. Garanzia della libertà di associazione, articolo fondamentale della dichiarazione: abolizione del divieto di formazione di partiti politici (terzo avviso ai naviganti) e fine del monopolio politico del partito unico (quarto e definitivo avviso, nave affondata). Nessun infingimento, nessuna blandizie. La dittatura di una élite deve lasciare il posto alla libera concorrenza fra idee e schieramenti. Non esistono alternative credibili per il futuro democratico della Cina. Libertà di assemblea, di religione e di espressione: "la pratica di considerare le parole come crimini non è più accettabile". Le ultime osservazioni riguardano altri due fattori assai controversi nell'attuale situazione politico-sociale del paese: il primo è l'educazione, attualmente al servizio dell'ideologia del partito-stato, da riformare in senso liberale; il secondo è la protezione della proprietà, formalmente riconosciuta nella costituzione ma di fatto continuamente oggetto di provvedimenti abusivi da parte delle autorità: è necessario che si costruisca un'economia di mercato realmente libera e aperta alla partecipazione di tutti i soggetti (un'implicita denuncia del capitalismo di stato e dei monopoli economici ed amministrativi che determinano e condizionano la crescita dell'economia cinese) e che si avvii una riforma agraria finalizzata alla privatizzazione delle terre. Rilevante anche il richiamo conclusivo all'esigenza di ristabilire la verità storica, compensare moralmente ed economicamente le vittime delle persecuzioni politiche e liberare tutti i prigionieri di coscienza. Non c'è libertà senza giustizia, non c'è riconciliazione senza verità, questo il messaggio dei trecento (e più) coraggiosi. "Oggi la Cina resta l'unica tra le grandi nazioni a rimanere infangata in politiche autoritarie, ciò che non solo condiziona lo sviluppo cinese ma limita anche il progresso dell'intera civiltà umana". Per cui, prosegue il testo, "ci auguriamo che tutti i cittadini che provino un senso di crisi, di responsabilità e di missione simile al nostro mettano da parte le differenze ed abbraccino gli ampi obiettivi di questo movimento di cittadini".
La reazione del governo
L'accenno finale al movimento non è causale, come già spiegato all'inizio. Era un movimento civico aperto quello nato intorno alla Charta 77 della dissidenza cecoslovacca: almeno nelle intenzioni dei suoi promotori è questo il cammino da seguire in Cina. Non un partito, non un gruppo ristretto di intellettuali, ma una piattaforma attorno a cui si possano riunire sensibilità molteplici, accomunate dal fine ultimo della democratizzazione del paese. Proprio attorno a questa temuta prospettiva si stanno concentrando gli sforzi delle autorità cinesi per disinnescare la miccia della potenziale ribellione. Sono stati più di cento i firmatari della Charta ad essere fermati e interrogati dal 6 dicembre ad oggi. Le modalità d’azione del regime sono significative. Le persone implicate vengono avvicinate per strada, prelevate dalla propria abitazione, avvisate per telefono e successivamente sottoposte ad una serie di domande sull’identità dei promotori, sui motivi della sottoscrizione, sulle tattiche di coinvolgimento della popolazione: segue poi la minaccia di ritorsione in caso di mancato ritiro della firma. E’ successo, spiega lo stesso Perry Link, allo scrittore Wen Kejian, cui gli agenti del regime hanno fatto sapere che la Charta costituiva “un fatto di estrema gravità”; è successo a Zhao Dagong, anche lui scrittore, considerato responsabile della diffusione del documento nell’area di Shenzhen; ma è successo anche a Zhang Zuhua, a Pechino, cui hanno perquisito la casa, confiscando libri, passaporti e computers e svuotato il conto in banca. E poi a Pu Zhiqiang, avvocato, e a Jiang Qisheng, filosofo, e a Gao Yu, giornalista, e a Teng Biao, anche lui avvocato. Poi c’è la storia di Xu Youyu, professore di filosofia all’Accademia Cinese di Scienze Sociali, vero e proprio laboratorio di idee del partito. Xu ha scritto una lettera aperta, anch’essa diffusa su Internet, in cui denunciava le pressioni dei superiori affinché ritirasse il suo appoggio alla Charta, in quanto "contro la legge e la costituzione". Ex guardia rossa, convertitosi all’anticomunismo (uno che lo conosce bene insomma), il professore ha gentilmente declinato l’invito qualificando apertamente come insensate le minacce dei suoi superiori. “A tutti i firmatari – ha spiegato – sarà vietata la pubblicazione dei loro lavori in patria. E certamente, quando sono seduto a casa mia, aspetto sempre da un momento all’altro l’arrivo della polizia”. Sembra che le autorità cerchino principalmente informazioni per rompere quella rete di contatti che unisce i promotori della dichiarazione e che potrebbe costituire l’embrione di un gruppo di dissidenza attiva. Stanare i responsabili e intimidire il resto della popolazione per stroncare sul nascere qualunque movimento organizzato. E’ la soglia intollerabile del dissenso organizzato quella che la Charta 08 ha superato: finché l’opposizione rimane una manifestazione personale ed isolata, si può chiudere un occhio. Quando però comincia ad essere condivisa, a diventare piattaforma politica, a riunire istanze diverse in una causa comune, allora scatta la repressione. E’ chiaro che in questa fase il regime predilige la sorveglianza e l’intimidazione perché la sua intenzione è risalire ai mandanti. Uno di questi è Liu Xiaobo, critico letterario ed attivista dai tempi di piazza Tiananmen, l’unico dei firmatari che sia stato finora arrestato: di lui non si sa nulla dall’8 dicembre, due giorni prima della pubblicazione. Le autorità non hanno informato delle ragioni e delle modalità della sua detenzione, né si conosce il suo luogo di detenzione attuale. Liu Xiaobo è una spina nel fianco del regime proprio perché il suo nome è intimamente legato ai fatti del 4 giugno di vent’anni fa, l’anniversario terribile per il partito-stato che mobiliterà la sua macchina da guerra per evitare qualsiasi commemorazione.
Le conseguenze della Charta
La generazione di democratici che si affaccia prepotentemente sulla scena con la Charta 08 nasce a Tiananmen, da quel movimento prende ispirazione, la dichiarazione di principi liberali di oggi è l’equivalente della statua della libertà che per settimane campeggiava sulla piazza prima della repressione. Ma anche la generazione che governa il paese deve, seppur per motivi opposti, a quegli eventi la sua attuale presenza sulla scena. Tiananmen, voluta e ordinata dall’intoccabile Deng Xiaoping, ha consegnato ai suoi successori (tra cui gli attuali dirigenti) una Cina normalizzata, ammutolita, impaurita. Quello che è successo dopo è storia e cronaca insieme, il patto col diavolo delle classi medie cinesi, la ricchezza per alcuni in cambio del silenzio di quasi tutti. Questo patto osceno oggi viene messo in discussione per la prima volta dalla Charta 08, elaborata e diffusa nel momento più difficile per un regime alle prese con una crisi economica difficilmente gestibile e con i conseguenti rischi di accentuazione dell’instabilità sociale. La dichiarazione rompe volutamente l’armonia imposta dall’alto e manda in scena una storia diversa: la sfida frontale di un gruppo di persone di diversa estrazione sociale e culturale ad una casta onnipotente. Che ne ha paura e reagisce dimostrandolo, dando la caccia a chi ha osato semplicemente esprimere pubblicamente un punto di vista diverso da quello ufficiale. E’ per questo che quello della diffusione reale del documento tra la popolazione cinese è un falso problema. Gli scettici e i critici fanno notare che si tratta pur sempre di un progetto élitario, incapace di far breccia nel cittadino comune, sia egli un esponente di quella classe media accomodata sia un lavoratore del proletariato urbano e rurale: quanti conoscono l’esistenza della Charta 08 in Cina? Probabilmente più di quanti si possa pensare visto che, anche se i censori hanno fatto di tutto per bandirlo, il testo è rintracciabile su Internet e la Cina è ormai il primo paese al mondo per numero di utenti della rete. Ma in ogni caso importa poco a questo punto della storia. La carta non ha come obiettivo il provocare una rivolta popolare a breve termine, ma quello di gettare nell’uniformato panorama della società civile cinese e in quello strettamente controllato della politica una pietra dello scandalo, un testo che parla di libertà dove c’è dittatura, di diritti umani dove ci sono carceri segrete, di libertà di espressione dove si va in galera per aver firmato un foglio, di pluralismo politico nel regno del partito unico. Vi sembra poco? L’impatto della coraggiosa iniziativa dei trecento si vedrà solo con il tempo: la goccia scava la pietra, la Charta 77 ebbe bisogno di più di un decennio per avere ragione della dittatura. Non si può sottovalutare il fatto che riunire migliaia di firme attorno ad un testo che parla apertamente di diritti e di cambio di regime nella Cina di oggi rappresenta già di per sé un atto eroico per le implicazioni personali che ne possono derivare. La Charta 08 non si limita a reagire ma propone, diventa documento programmatico, e gradualmente ma inevitabilmente si trasformerà in oggetto di dibattito, fuori ma anche – nonostante gli enormi ostacoli – all’interno del paese. E’ un peccato che la stampa occidentale non si sia ancora accorta della più importante azione in favore dei diritti umani mai realizzatasi in Cina. L’attenzione che i giornali dell’occidente democratico hanno dedicato al documento è stata quasi nulla, fatte salve pochissime eccezioni. Forse lo considerano la solita iniziativa velleitaria di un gruppo di intellettuali fuori dalla realtà, forse pensano che in poche settimane il regime sarà riuscito a cancellare ogni traccia e che non valga nemmeno la pensa di parlarne. Forse hanno solo timore di offendere i boss della superpotenza emergente. Forse tutto quel liberalismo, quei richiami espliciti alle storiche dichiarazioni del XVIII secolo non vanno attualmente molto di moda nelle redazioni. Però in Cina c’è chi sta rischiando grosso per rompere il silenzio e per far nascere un’alternativa alla stagnazione politica. C’e chi ha deciso di parlare per tutti quelli che non possono farlo. In Cina c’è chi dice no e spiega chiaramente perché. Forse varrebbe la pena dare un’occhiata.
Vorrei provare ad analizzare il contenuto e le implicazioni politiche della Charta 08, il documento firmato da almeno duemila (ma c’è chi dice settemila) cittadini cinesi in favore dell'instaurazione di un regime democratico e rispettoso dei diritti umani in Cina. Tra di loro attivisti, intellettuali, leaders rurali, avvocati, professori e perfino funzionari del partito di livello intermedio. La carta è stata resa nota il 10 dicembre, in occasione dell'anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, e si basa sull'analoga esperienza della Charta 77, il manifesto della dissidenza cecoslovacca, attorno a cui si costituì quel nucleo di resistenza che avrebbe portato dodici anni dopo alla fine del regime a partito unico. Proprio il superamento del monopolio politico del PCC e la costituzione di un gruppo informale di cittadini che si richiamano ai principi della carta sono i due campanelli d'allarme più preoccupanti per la dirigenza cinese. Esaminiamo nel dettaglio prima il testo del documento, poi la reazione del governo e infine le conseguenze che la Charta 08 potrebbe avere sul futuro della Cina.
In rete, dove il documento è stato diffuso, circolano due traduzioni del testo, la prima del giornalista Perry Link pubblicata sulla New York Review of Books, la seconda sul sito dell’organizzazione Human Rights in China. Pare che Link abbia fatto riferimento ad una prima bozza del documento, mentre quella di HRC sarebbe la versione definitiva, leggermente riveduta prima della pubblicazione. A livello di contenuti non vi sono differenze sostanziali tra i due scritti, fatta eccezione per un riferimento esplicito al massacro di piazza Tiananmen contenuto nel preambolo, che scompare nel testo finale, forse in seguito all’arresto preventivo di Liu Xiaobo (noto dissidente attivo fin dall’89 e primo firmatario della dichiarazione) avvenuto due giorni prima della sua diffusione. Farò riferimento alla versione di HRC, se non altro perché più sobria e per enfatizzare c’è sempre tempo. La Charta 08 si divide in tre sezioni: un lungo preambolo (forse la parte nel complesso più significativa), una dichiarazione di principi fondamentali e infine una serie di proposte. Dico subito che a mio avviso si tratta del documento più significativo mai prodotto dagli oppositori al regime comunista cinese, innanzitutto per il richiamo esplicito alla tradizione liberale e illuminista del costituzionalismo occidentale che pervade tutta la stesura e poi per il salto di qualità che suppone il non limitarsi ad esigere un processo riformatore interno al regime ma il proclamare la necessità di un suo superamento. I coraggiosi sottoscrittori certamente non incitano alla rivolta ma dichiarano esplicitamente di lavorare per una rivoluzione politica finalizzata all’instaurazione di una democrazia liberale al posto del partito-stato. Al di là delle conseguenza che a breve termine la Charta potrebbe avere (e a mio avviso non c’è dubbio che a lungo termine ne avrà di decisive), questo è già di per sé un fatto storico, una pietra miliare nella lotta per il riscatto civile del popolo cinese.
Il testo
- Il preambolo comincia con un riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici firmata anche dalla Cina e alla breve ma intensa esperienza del muro della democrazia, che per quasi un anno animò le spente strade di una Pechino che stava faticosamente provando a recuperarsi dall’incubo maoista. Segue immediatamente il riconoscimento della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti umani come “principi comuni e universali condivisi dall’intera umanità” e della democrazia e del governo costituzionale come strutture politiche essenziali alla protezione di questi valori fondamentali. Tradizione liberale allo stato puro ed anche il rifiuto netto di quella strana teoria, tanto cara agli autocrati e purtroppo accettata perfino da buona parte dell’opinione pubblica occidentale, secondo la quale esisterebbe una via cinese alla democrazia, un sistema alternativo di valori adattato alla realtà asiatica. La Charta fa piazza pulita di questa forma di paternalismo peloso e trasversale: solo la democrazia liberale è in grado di garantire i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo; ogni versione riveduta e corretta altro non è che una scusa per non cambiare.
Quale direzione prenderà la Cina del XXI secolo, si chiedono gli autori? Continuerà la sua “modernizzazione” all’interno di un sistema autoritario o riconoscerà i valori universali (di nuovo torna l’insistenza sul concetto di universalità dei diritti) aggiungendosi al novero delle nazioni civilizzate e costruendo un sistema politico democratico? Mi fermo ancora perché è importante estrapolare i concetti. Qui ce ne sono due: il primo è che quella cinese è una crescita economica senza una reale modernizzazione, perché solo una società aperta, in cui i cittadini possano liberamente esercitare le loro prerogative può consentire ad una nazione in via di sviluppo di diventare definitivamente un paese moderno; il secondo è che l’idea di civiltà deve essere intimamente legata al rispetto dei principi di libertà ed uguaglianza e dei diritti umani, e che in assenza di queste condizioni essenziali non si può parlare di contesto civile. Alla faccia di tutti i relativismi. Il preambolo prosegue con un rapido excursus dei regimi che dal XIX secolo ad oggi hanno governato la Cina. Quando arrivano alla vittoria dei comunisti del ’49 i firmatari denunciano “l’abisso totalitario” che da quegli eventi è derivato, responsabile di una “serie di catastrofi umanitarie” come la Campagna contro gli elementi di destra, il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e, sacrilegio, il 4 giugno, ovvero la data del massacro di piazza Tiananmen che compare qui nel testo per la prima e unica volta.
Pur riconoscendo che le riforme economiche del post-maoismo hanno portato ad un miglioramento delle condizioni sociali per una parte significativa della popolazione, i redattori constatano che il potere è rimasto arroccato alle sue posizioni di privilegio e di monopolio, rifiutando qualsiasi cambiamento significativo dal punto di vista politico: “in Cina ci sono molte leggi ma non esiste uno stato di diritto, c’è una costituzione ma non un governo costituzionale”, e soprattutto c’è un blocco di potere che “insiste nel perpetuare il regime autoritario”. Da qui la corruzione diffusa, il declino dell’etica, la polarizzazione sociale e lo sviluppo economico diseguale, l’impunità delle classi dirigenti. E ancora la mancata protezione della proprietà e gli ostacoli che il potere oppone alla "ricerca della felicità" (avete letto bene, la Charta prende a prestito l’esatta espressione della Dichiarazione di Indipendenza del 1776), con il progressivo aumento dei conflitti sociali per l’intensificarsi dell’ostilità tra ufficiali del governo e popolazione. Il cambiamento – conclude il preambolo – non è più rinviabile.
- La seconda parte del documento è dedicata all'enunciazione dei principi ispiratori della Charta. Al primo posto la libertà, declinata secondo il paradigma delle libertà negative, le libertà dallo stato: espressione, stampa, religione, riunione, movimento, protesta. Senza libertà non c'è civiltà possibile. La difesa dei diritti umani si richiama espressamente alla tradizione giusnaturalistica: i diritti non sono concessi dallo stato ma inerenti alla persona umana fin dalla nascita. Lo stato esiste solo per garantire la protezione di questi diritti ed il loro libero esercizio. Basterebbe questo enunciato da solo ad aprire e chiudere l'intera dichiarazione. Si tratta della più netta difesa dell'universalità dei diritti umani mai pronunciata in territorio cinese. Un concetto di per sé così evidente che risulta incomprensibile come possa essere messo continuamente in discussione non solo (ovviamente) dal potere costituito, ma anche da ampi settori all'interno della stessa popolazione cinese (e qui i motivi possono essere molteplici) e da buona parte dell'opinione pubblica occidentale (in questo caso si tratta invece solo di cattiva coscienza o ignoranza). Poi l'uguaglianza, degli individui tra di loro e di fronte alla legge. Si parla sempre di singoli, mai di comunità, il messaggio è rivoluzionario per la Cina. L'uguaglianza è nei diritti, non necessariamente nelle condizioni, nelle situazioni di partenza, non in quelle finali. Il repubblicanesimo, inteso come bilanciamento dei poteri tra i diversi organi dello stato e degli interessi dei diversi gruppi sociali, che devono poter esprimersi in un clima di giustizia e correttezza istituzionale. La democrazia, il governo "dal popolo, attraverso il popolo, per il popolo". La sovranità popolare è l'unica fonte di legittimazione delle classi dirigenti. Le mura di Zhongnanhai registrano a questo punto una scossa. Solo i cittadini e non il partito che ne ha sequestrato le prerogative politiche possono decidere chi li governerà. Diritto di voto, elezioni regolari e rispetto delle minoranze. Infine il costituzionalismo, il riconoscimento delle libertà e dei diritti e la loro protezione all'interno della costituzione, ma soprattutto una chiara definizione dei limiti dell'azione governativa, sottoposta anch'essa alle regole dello stato di diritto. Il contrario di quanto sta avvenendo nella Cina attuale. Occore passare - chiosano gli autori - da un sistema in cui il cittadino si affida totalmente alla benevolenza dei suoi governanti, ad un contesto in cui egli diventi protagonista in prima persona dello sviluppo della nazione in cui vive, sviluppando una coscienza civile in un contesto in cui i diritti corrispondano alle responsabilità. L'autoritarismo è in declino ovunque - si nota - e anche per la Cina deve finire l'era dei poteri imperiali, dell'assolutismo di qualsiasi colore.
- Da qui una serie di proposte che costituiscono la terza ed ultima parte del documento. Sono 17 punti, alcuni dei quali forse entrano troppo nel dettaglio rischiando di attenuarne la solennità, più proposte elettorali che dichiarazioni di principio: parlo ad esempio della riforma fiscale (che però contiene il fondamentale principio della no taxation without representation), della protezione dell'ambiente o della creazione di una repubblica federale (una prospettiva al momento difficilmente concretizzabile). Ma questa sezione contiene altri elementi di portata dirompente. L'abolizione di tutte quelle disposizioni costituzionali non in linea con il principio della sovranità popolare: in pratica la cesura drastica con i pilastri che reggono attualmente l'edificio del regime. Il principio della separazione dei poteri e la chiara definizione dell'autorità del potere centrale, sia in chiave politico-amministrativa che territoriale. L'elezione diretta di tutti i corpi legislativi. Altro che voto a livello di villaggi, pratica truffaldina su cui si sta costruendo una letteratura scandalosamente apologetica volta ad accreditare una presunta volontà riformatrice dei gerarchi del PCC. L'indipendenza del potere giudiziario dai diktat del partito e la conseguente abolizione di quei Comitati Politici e Legislativi attraverso cui la struttura di potere controlla e condiziona l'amministrazione della giustizia. Primo avviso ai naviganti. Sottrazione delle forze armate al controllo del partito. L'esercito deve rispondere solo alla costituzione e mantenere la neutralità, così come gli altri corpi di pubblica sicurezza a cominciare dalla polizia. Divieto di discriminazioni tra i pubblici ufficiali a seconda dell'appartenenza politica. Secondo avviso ai naviganti. Creazione di una commissione per i diritti umani contro gli abusi del potere (in uno stato di diritto però dovrebbero bastare i tribunali ordinari, almeno in teoria); abolizione del sistema carcerario chiamato rieducazione attraverso il lavoro, uno dei cardini dell'arcipelago-gulag cinese. Elezione dei pubblici ufficiali secondo il principio una persona un voto. Abolizione dell'attuale sistema di registrazione per i lavoratori che dalle campagne si trasferiscono nelle città, fonte di palesi disuguagliaze tra cittadini. Garanzia della libertà di associazione, articolo fondamentale della dichiarazione: abolizione del divieto di formazione di partiti politici (terzo avviso ai naviganti) e fine del monopolio politico del partito unico (quarto e definitivo avviso, nave affondata). Nessun infingimento, nessuna blandizie. La dittatura di una élite deve lasciare il posto alla libera concorrenza fra idee e schieramenti. Non esistono alternative credibili per il futuro democratico della Cina. Libertà di assemblea, di religione e di espressione: "la pratica di considerare le parole come crimini non è più accettabile". Le ultime osservazioni riguardano altri due fattori assai controversi nell'attuale situazione politico-sociale del paese: il primo è l'educazione, attualmente al servizio dell'ideologia del partito-stato, da riformare in senso liberale; il secondo è la protezione della proprietà, formalmente riconosciuta nella costituzione ma di fatto continuamente oggetto di provvedimenti abusivi da parte delle autorità: è necessario che si costruisca un'economia di mercato realmente libera e aperta alla partecipazione di tutti i soggetti (un'implicita denuncia del capitalismo di stato e dei monopoli economici ed amministrativi che determinano e condizionano la crescita dell'economia cinese) e che si avvii una riforma agraria finalizzata alla privatizzazione delle terre. Rilevante anche il richiamo conclusivo all'esigenza di ristabilire la verità storica, compensare moralmente ed economicamente le vittime delle persecuzioni politiche e liberare tutti i prigionieri di coscienza. Non c'è libertà senza giustizia, non c'è riconciliazione senza verità, questo il messaggio dei trecento (e più) coraggiosi. "Oggi la Cina resta l'unica tra le grandi nazioni a rimanere infangata in politiche autoritarie, ciò che non solo condiziona lo sviluppo cinese ma limita anche il progresso dell'intera civiltà umana". Per cui, prosegue il testo, "ci auguriamo che tutti i cittadini che provino un senso di crisi, di responsabilità e di missione simile al nostro mettano da parte le differenze ed abbraccino gli ampi obiettivi di questo movimento di cittadini".
La reazione del governo
L'accenno finale al movimento non è causale, come già spiegato all'inizio. Era un movimento civico aperto quello nato intorno alla Charta 77 della dissidenza cecoslovacca: almeno nelle intenzioni dei suoi promotori è questo il cammino da seguire in Cina. Non un partito, non un gruppo ristretto di intellettuali, ma una piattaforma attorno a cui si possano riunire sensibilità molteplici, accomunate dal fine ultimo della democratizzazione del paese. Proprio attorno a questa temuta prospettiva si stanno concentrando gli sforzi delle autorità cinesi per disinnescare la miccia della potenziale ribellione. Sono stati più di cento i firmatari della Charta ad essere fermati e interrogati dal 6 dicembre ad oggi. Le modalità d’azione del regime sono significative. Le persone implicate vengono avvicinate per strada, prelevate dalla propria abitazione, avvisate per telefono e successivamente sottoposte ad una serie di domande sull’identità dei promotori, sui motivi della sottoscrizione, sulle tattiche di coinvolgimento della popolazione: segue poi la minaccia di ritorsione in caso di mancato ritiro della firma. E’ successo, spiega lo stesso Perry Link, allo scrittore Wen Kejian, cui gli agenti del regime hanno fatto sapere che la Charta costituiva “un fatto di estrema gravità”; è successo a Zhao Dagong, anche lui scrittore, considerato responsabile della diffusione del documento nell’area di Shenzhen; ma è successo anche a Zhang Zuhua, a Pechino, cui hanno perquisito la casa, confiscando libri, passaporti e computers e svuotato il conto in banca. E poi a Pu Zhiqiang, avvocato, e a Jiang Qisheng, filosofo, e a Gao Yu, giornalista, e a Teng Biao, anche lui avvocato. Poi c’è la storia di Xu Youyu, professore di filosofia all’Accademia Cinese di Scienze Sociali, vero e proprio laboratorio di idee del partito. Xu ha scritto una lettera aperta, anch’essa diffusa su Internet, in cui denunciava le pressioni dei superiori affinché ritirasse il suo appoggio alla Charta, in quanto "contro la legge e la costituzione". Ex guardia rossa, convertitosi all’anticomunismo (uno che lo conosce bene insomma), il professore ha gentilmente declinato l’invito qualificando apertamente come insensate le minacce dei suoi superiori. “A tutti i firmatari – ha spiegato – sarà vietata la pubblicazione dei loro lavori in patria. E certamente, quando sono seduto a casa mia, aspetto sempre da un momento all’altro l’arrivo della polizia”. Sembra che le autorità cerchino principalmente informazioni per rompere quella rete di contatti che unisce i promotori della dichiarazione e che potrebbe costituire l’embrione di un gruppo di dissidenza attiva. Stanare i responsabili e intimidire il resto della popolazione per stroncare sul nascere qualunque movimento organizzato. E’ la soglia intollerabile del dissenso organizzato quella che la Charta 08 ha superato: finché l’opposizione rimane una manifestazione personale ed isolata, si può chiudere un occhio. Quando però comincia ad essere condivisa, a diventare piattaforma politica, a riunire istanze diverse in una causa comune, allora scatta la repressione. E’ chiaro che in questa fase il regime predilige la sorveglianza e l’intimidazione perché la sua intenzione è risalire ai mandanti. Uno di questi è Liu Xiaobo, critico letterario ed attivista dai tempi di piazza Tiananmen, l’unico dei firmatari che sia stato finora arrestato: di lui non si sa nulla dall’8 dicembre, due giorni prima della pubblicazione. Le autorità non hanno informato delle ragioni e delle modalità della sua detenzione, né si conosce il suo luogo di detenzione attuale. Liu Xiaobo è una spina nel fianco del regime proprio perché il suo nome è intimamente legato ai fatti del 4 giugno di vent’anni fa, l’anniversario terribile per il partito-stato che mobiliterà la sua macchina da guerra per evitare qualsiasi commemorazione.
Le conseguenze della Charta
La generazione di democratici che si affaccia prepotentemente sulla scena con la Charta 08 nasce a Tiananmen, da quel movimento prende ispirazione, la dichiarazione di principi liberali di oggi è l’equivalente della statua della libertà che per settimane campeggiava sulla piazza prima della repressione. Ma anche la generazione che governa il paese deve, seppur per motivi opposti, a quegli eventi la sua attuale presenza sulla scena. Tiananmen, voluta e ordinata dall’intoccabile Deng Xiaoping, ha consegnato ai suoi successori (tra cui gli attuali dirigenti) una Cina normalizzata, ammutolita, impaurita. Quello che è successo dopo è storia e cronaca insieme, il patto col diavolo delle classi medie cinesi, la ricchezza per alcuni in cambio del silenzio di quasi tutti. Questo patto osceno oggi viene messo in discussione per la prima volta dalla Charta 08, elaborata e diffusa nel momento più difficile per un regime alle prese con una crisi economica difficilmente gestibile e con i conseguenti rischi di accentuazione dell’instabilità sociale. La dichiarazione rompe volutamente l’armonia imposta dall’alto e manda in scena una storia diversa: la sfida frontale di un gruppo di persone di diversa estrazione sociale e culturale ad una casta onnipotente. Che ne ha paura e reagisce dimostrandolo, dando la caccia a chi ha osato semplicemente esprimere pubblicamente un punto di vista diverso da quello ufficiale. E’ per questo che quello della diffusione reale del documento tra la popolazione cinese è un falso problema. Gli scettici e i critici fanno notare che si tratta pur sempre di un progetto élitario, incapace di far breccia nel cittadino comune, sia egli un esponente di quella classe media accomodata sia un lavoratore del proletariato urbano e rurale: quanti conoscono l’esistenza della Charta 08 in Cina? Probabilmente più di quanti si possa pensare visto che, anche se i censori hanno fatto di tutto per bandirlo, il testo è rintracciabile su Internet e la Cina è ormai il primo paese al mondo per numero di utenti della rete. Ma in ogni caso importa poco a questo punto della storia. La carta non ha come obiettivo il provocare una rivolta popolare a breve termine, ma quello di gettare nell’uniformato panorama della società civile cinese e in quello strettamente controllato della politica una pietra dello scandalo, un testo che parla di libertà dove c’è dittatura, di diritti umani dove ci sono carceri segrete, di libertà di espressione dove si va in galera per aver firmato un foglio, di pluralismo politico nel regno del partito unico. Vi sembra poco? L’impatto della coraggiosa iniziativa dei trecento si vedrà solo con il tempo: la goccia scava la pietra, la Charta 77 ebbe bisogno di più di un decennio per avere ragione della dittatura. Non si può sottovalutare il fatto che riunire migliaia di firme attorno ad un testo che parla apertamente di diritti e di cambio di regime nella Cina di oggi rappresenta già di per sé un atto eroico per le implicazioni personali che ne possono derivare. La Charta 08 non si limita a reagire ma propone, diventa documento programmatico, e gradualmente ma inevitabilmente si trasformerà in oggetto di dibattito, fuori ma anche – nonostante gli enormi ostacoli – all’interno del paese. E’ un peccato che la stampa occidentale non si sia ancora accorta della più importante azione in favore dei diritti umani mai realizzatasi in Cina. L’attenzione che i giornali dell’occidente democratico hanno dedicato al documento è stata quasi nulla, fatte salve pochissime eccezioni. Forse lo considerano la solita iniziativa velleitaria di un gruppo di intellettuali fuori dalla realtà, forse pensano che in poche settimane il regime sarà riuscito a cancellare ogni traccia e che non valga nemmeno la pensa di parlarne. Forse hanno solo timore di offendere i boss della superpotenza emergente. Forse tutto quel liberalismo, quei richiami espliciti alle storiche dichiarazioni del XVIII secolo non vanno attualmente molto di moda nelle redazioni. Però in Cina c’è chi sta rischiando grosso per rompere il silenzio e per far nascere un’alternativa alla stagnazione politica. C’e chi ha deciso di parlare per tutti quelli che non possono farlo. In Cina c’è chi dice no e spiega chiaramente perché. Forse varrebbe la pena dare un’occhiata.
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