Il rebus thailandese/5.
La decisione della Corte Suprema di sciogliere il partito di maggioranza (PPP) e di interdire dai pubblici uffici per i prossimi cinque anni il primo ministro Somchai e una sessantina di dirigenti risolve l’impasse ma non la crisi istituzionale in cui è sprofondata la Thailandia. La stampa – specialmente quella italiana – si sofferma soprattutto sulla fine delle proteste annunciata per domani dalla leadership del PAD e sulla riapertura degli aeroporti. Se questa è certamente una notizia, rappresenta però solo in maniera parziale la complessa situazione che il paese sta vivendo. I manifestanti, che per quasi duecento giorni hanno dato vita a continue proteste contro il governo legittimo della nazione, interpretano ovviamente l’attesa pronuncia come una vittoria, dato che il loro principale obiettivo era la caduta dell’esecutivo pro-Thaksin. Ma il vuoto istituzionale che si apre a questo punto lascia presagire un ulteriore periodo di instabilità politica difficilmente sanabile a breve termine. Il precedente è di quelli che lasceranno il segno in ogni caso, perché la forma, i contenuti e i tempi dell’azione giudiziaria sono quelli di un golpe mascherato. E’ la seconda volta in poche settimane che i tribunali si incaricano di togliere di mezzo un primo ministro in carica: era successo con Samak, grazie ad un cavillo costituzionale da operetta (il programma di cucina), è capitato di nuovo con Somchai, per una storia di brogli elettorali per nulla chiara. Alla luce della sentenza assumono una connotazione più definita sia l’incredibile escalation dell’opposizione culminata con l’occupazione degli aeroporti, sia la strategia attendista dell’esercito che si sarebbe probabilmente sporcato le mani se non fosse stato sicuro che la Corte avebbe svolto il lavoro al suo posto. La compagine governativa (formata, oltre che dal PPP, da altre due formazioni minori anch’esse colpite dalla pronuncia) ha reagito oggi con una flemma perfino sospetta, evitando di mettere in discussione la legittimità del giudizio e limitandosi a rilanciare politicamente sulla nomina di un nuovo primo ministro affine, in una prossima sessione parlamentare convocata ad hoc. I membri della Camera dei Rappresentanti che non sono stati toccati dal provvedimento di interdizione hanno, secondo la costituzione, sessanta giorni per confluire in un altro partito: pare che la nuova casa sia già pronta e si chiamerà Puea Thai Party. Toccherà a loro, almeno nelle intenzioni, eleggere il successore di Somchai e ci sarebbero già una ventina di nomi a disposizione. Ma proprio su questa designazione si annuncia il prossimo scontro: se c’è stata frode non dovrebbe essere invalidato tutto il processo? E’ sull'interpretazione della legge elettorale che si giocheranno le prossime mosse dei diversi schieramenti in campo. Certo che se alla maggioranza dei senza partito fosse impedito di eleggere un premier, la violazione delle regole costituzionali sarebbe flagrante, avallata per di più da un giudiziario che potrebbe prendere in mano la situazione nominando un Consiglio Supremo con funzioni di garanzia istituzionale sotto l’egida delle forze armate. La volontà popolare verrebbe a quel punto completamente esautorata e il pericolo di una reazione di quella parte di paese che ha dato la sua fiducia al PPP (le classi meno abbienti) si materializzerebbe. Se invece si convocassero nuove elezioni (ma chi potrebbe farlo senza violare le regole?) la probabile vittoria del fronte governativo riproporrebbe la stessa situazione che ha condotto alla presente crisi. E’ vero infatti che il PAD si è per il momento dichiarato soddisfatto del risultato raggiunto ma i suoi leaders si sono detti pronti a riprendere la battaglia non appena le condizioni si dovessero ripresentare. In parole povere, l’opposizione non si ritira dopo aver raggiunto un accordo soddisfacente, ma lo fa solo a patto che gli organi costituzionali si incarichino di tenere lontani dal potere i fedelissimi di Thaksin (o presunti tali). Si tratta di un’ipoteca constante sul destino politico della Thailandia. Le classi medie, filo-monarchiche e filo-militari rappresentate dal PAD non sono disposte ad accettare nulla che non sia un governo amico, che escluda una parte significativa del paese da qualsiasi ruolo di rappresentanza istituzionale. Se questa è una soluzione io sono il re Bhumibol che domani, se ce la fa, parlerà alla nazione in occasione del suo ottantunesimo compleanno. Tutti lo attendono come una rivelazione.
La decisione della Corte Suprema di sciogliere il partito di maggioranza (PPP) e di interdire dai pubblici uffici per i prossimi cinque anni il primo ministro Somchai e una sessantina di dirigenti risolve l’impasse ma non la crisi istituzionale in cui è sprofondata la Thailandia. La stampa – specialmente quella italiana – si sofferma soprattutto sulla fine delle proteste annunciata per domani dalla leadership del PAD e sulla riapertura degli aeroporti. Se questa è certamente una notizia, rappresenta però solo in maniera parziale la complessa situazione che il paese sta vivendo. I manifestanti, che per quasi duecento giorni hanno dato vita a continue proteste contro il governo legittimo della nazione, interpretano ovviamente l’attesa pronuncia come una vittoria, dato che il loro principale obiettivo era la caduta dell’esecutivo pro-Thaksin. Ma il vuoto istituzionale che si apre a questo punto lascia presagire un ulteriore periodo di instabilità politica difficilmente sanabile a breve termine. Il precedente è di quelli che lasceranno il segno in ogni caso, perché la forma, i contenuti e i tempi dell’azione giudiziaria sono quelli di un golpe mascherato. E’ la seconda volta in poche settimane che i tribunali si incaricano di togliere di mezzo un primo ministro in carica: era successo con Samak, grazie ad un cavillo costituzionale da operetta (il programma di cucina), è capitato di nuovo con Somchai, per una storia di brogli elettorali per nulla chiara. Alla luce della sentenza assumono una connotazione più definita sia l’incredibile escalation dell’opposizione culminata con l’occupazione degli aeroporti, sia la strategia attendista dell’esercito che si sarebbe probabilmente sporcato le mani se non fosse stato sicuro che la Corte avebbe svolto il lavoro al suo posto. La compagine governativa (formata, oltre che dal PPP, da altre due formazioni minori anch’esse colpite dalla pronuncia) ha reagito oggi con una flemma perfino sospetta, evitando di mettere in discussione la legittimità del giudizio e limitandosi a rilanciare politicamente sulla nomina di un nuovo primo ministro affine, in una prossima sessione parlamentare convocata ad hoc. I membri della Camera dei Rappresentanti che non sono stati toccati dal provvedimento di interdizione hanno, secondo la costituzione, sessanta giorni per confluire in un altro partito: pare che la nuova casa sia già pronta e si chiamerà Puea Thai Party. Toccherà a loro, almeno nelle intenzioni, eleggere il successore di Somchai e ci sarebbero già una ventina di nomi a disposizione. Ma proprio su questa designazione si annuncia il prossimo scontro: se c’è stata frode non dovrebbe essere invalidato tutto il processo? E’ sull'interpretazione della legge elettorale che si giocheranno le prossime mosse dei diversi schieramenti in campo. Certo che se alla maggioranza dei senza partito fosse impedito di eleggere un premier, la violazione delle regole costituzionali sarebbe flagrante, avallata per di più da un giudiziario che potrebbe prendere in mano la situazione nominando un Consiglio Supremo con funzioni di garanzia istituzionale sotto l’egida delle forze armate. La volontà popolare verrebbe a quel punto completamente esautorata e il pericolo di una reazione di quella parte di paese che ha dato la sua fiducia al PPP (le classi meno abbienti) si materializzerebbe. Se invece si convocassero nuove elezioni (ma chi potrebbe farlo senza violare le regole?) la probabile vittoria del fronte governativo riproporrebbe la stessa situazione che ha condotto alla presente crisi. E’ vero infatti che il PAD si è per il momento dichiarato soddisfatto del risultato raggiunto ma i suoi leaders si sono detti pronti a riprendere la battaglia non appena le condizioni si dovessero ripresentare. In parole povere, l’opposizione non si ritira dopo aver raggiunto un accordo soddisfacente, ma lo fa solo a patto che gli organi costituzionali si incarichino di tenere lontani dal potere i fedelissimi di Thaksin (o presunti tali). Si tratta di un’ipoteca constante sul destino politico della Thailandia. Le classi medie, filo-monarchiche e filo-militari rappresentate dal PAD non sono disposte ad accettare nulla che non sia un governo amico, che escluda una parte significativa del paese da qualsiasi ruolo di rappresentanza istituzionale. Se questa è una soluzione io sono il re Bhumibol che domani, se ce la fa, parlerà alla nazione in occasione del suo ottantunesimo compleanno. Tutti lo attendono come una rivelazione.
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