18 jun 2008

Birmania. Uomini e no.













Al di là del tenore un po' superficiale dell'articolo (mancano cifre esatte, stime e verifiche concrete), è certamente vero che la mobilitazione dei privati e di piccoli gruppi di cittadini ha impedito che il disastro umanitario post-Nargis risultasse ancora più drammatico. La contrapposizione tra uno stato impegnato a ritardare il più possibile i soccorsi e una comunità che ha fatto delle poche risorse disponibili un tesoro inestimabile si rivela oggi in tutta la sua enormità. I cinici dicono che ogni popolo ha il governo che si merita ma questa facezia non è mai stata così fuori luogo come nel caso birmano. La speranza è che l'embrione di società civile nato dall'emergenza possa in un futuro non troppo lontano costituire la base per la rinascita del paese:
“Our group started with five people,” said a young Rangoon doctor. “We didn’t collect money, food and other supplies, but just told our relatives and friends that we would go to the Irrawaddy Delta to help people there. Then people who know us donated cash, rice and other relief items for the survivors.”
Some local relief initiatives grew to scores of volunteer workers.
“These civic groups born in the aftermath of Cyclone Nargis are unlike civil society in western countries,” said Khin Zaw Win, a Burmese researcher in Rangoon. “They are rooted in goodwill, replacing the irresponsible people.”
Ma in assenza di un consistente intervento esterno le cui forme restano da definire, questo ammirevole sforzo collettivo è destinato a perdersi come sempre nel labirinto della repressione e dell'indifferenza. 

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