17 oct 2008

Cina. Terra promessa.



C'era attesa in Cina per l'esito dell'ultima riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista, un fatto già di per sé singolare visto che normalmente questi meeting non sono certo forieri di novità eclatanti né tantomeno le deliberazioni adottate vengono date in pasto all'opinione pubblica. Ma stavolta l'ordine del giorno prevedeva una serie di misure riguardanti la riforma agraria che, se approvate, costituirebbero un primo importante passo verso quella privatizzazione della proprietà della terra che gli esperti considerano fondamentale nel processo di sviluppo, incalzante ma incompleto e contraddittorio, dell'Impero di Mezzo. In Cina le terre sono ancora proprietà collettiva, cioè dello stato, il quale concede solo un diritto di uso trentennale ai contadini. E' un residuo dell'epoca maoista, un bastione di quel comunismo ortodosso che, contariamente a quanto in genere si ritiene, non resta confinato alla sfera politica ma condiziona ancora parte di quella economica. La riforma dovrebbe garantire agli agricoltori la possibilità di noleggiare, trasferire, vendere i loro diritti di utilizzo delle terre o darli in garanzia per ottenere crediti dalle banche: un'apertura che tuttavia non si spingerebbe fino al riconoscimento della proprietà individuale, ancora tabù in ambito agricolo. Gli obiettivi dichiarati della riforma sono l'aumento dell'efficienza nella produzione agricola, il miglioramento progressivo delle entrate dei contadini (da raddoppiare entro il 2020), la riduzione del gap agroalimentare con l'occidente e gli Stati Uniti in particolare, lo stemperamento delle tensioni sociali che i costanti abusi dei funzionari pubblici nei villaggi cinesi stanno provocando, con gravi ricadute su quella armonia sociale così cara alla propaganda di Pechino. Il condizionale è d'obbligo, però. Infatti, nonostante i nuovi provvedimenti fossero annunciati da settimane dalle agenzie di stampa statali e nonostante la visita di Hu Jintao in persona ad un villaggio modello della campagna cinese, nel documento finale che ha chiuso la riunione dei 368 del Comitato Centrale non era presente nessun cenno a concrete misure di liberalizzazione in materia. Solo un vago e generico richiamo alla necessità di "portare avanti le riforme agrarie e di emancipare le menti".
Marcia indietro? E' presto per dirlo perché sarà solo nel prossimo mese di marzo che l'Assemblea Nazionale sarà chiamata a ratificare ufficialmente le decisioni prese la settimana scorsa dagli alti dignitari del partito. Ma c'è chi insinua che la linea dura abbia vinto ancora una volta all'interno del PCC. Sulla questione agraria si scaldano i cuori dei fedelissimi alla linea del comunismo duro e puro che avvertono che un rilassamento del controllo statale sull'economia agricola, seppur parziale, produrrebbe disordini sociali con conseguenze gravi per la tenuta del Partito al potere. Hu Jintao, da parte sua, si è dimostrato tutt'altro che un riformista in questi anni e, pur avendo esperienza diretta delle condizioni degli agricoltori, non ha né la volontà né la forza per imporre una riforma sostanziale: "nessuno dovrebbe sorprendersi del fatto che si continui la tendenza sperimentale invece di perseguire una trasformazione ideologica di fondo", osserva  in un'intervista a Time Russel Moses, analista di cose cinesi. In realtà qualunque sia la portata reale della riforma annunciata, la stessa è destinata a scontrarsi con il più grosso ostacolo sulla via della modernizzazione definitiva dell'ex grande proletaria: l'assenza di uno stato di diritto, di un insieme di regole condivise che garantiscano la correttezza delle transazioni e proteggano in questo caso i contadini dai soprusi del potere politico ed economico. "L'implementazione della legge è un fattore chiave", spiega Keliang Zhu, avvocato del Rural Development Institute, con base a Seattle. "Dobbiamo assicurare che le istituzioni supportino lo sviluppo delle leggi e delle politiche di riforma". Un obiettivo ancora lontano nella Cina del Partito Comunista che continua a non risolvere la contraddizione insita nella struttura stessa di un partito-stato: come conciliare potere e legalità, come istituire un sistema di regole cui anche la classe dirigente debba sottostare, senza cedere porzioni di autorità. Si tratta di una dicotomia irriducibile: dove c'è il potere assoluto del partito non ci sono vere riforme; dove ci sono vere riforme non c'è più il potere assoluto del partito. 
Uno degli effetti che il nuovo regime di trasferimento dei diritti potrebbe generare sarebbe la creazione di aziende agricole in grado di competere sul mercato globale, quando oggi l'agricoltura cinese resta confinata ad una dimensione prettamente familiare, rivolta al consumo interno; posto che la vera rivoluzione agraria si avrà solo nel momento in cui sarà riconosciuta la proprietà privata delle terre, certamente la possibilità di concentrare i diritti d'uso di molti contadini in un solo soggetto giuridico implicherebbe una trasformazione delle dinamiche attualmente esistenti nel campo. Inoltre consentirebbe un'emigrazione più responsabile e in un certo senso più sicura verso le città, dal momento che i contadini avrebbero le spalle coperte - almeno in parte - dai benefici derivati dalle transazioni compiute. Questo in teoria. In pratica la Cina di oggi è patria di uno sviluppo senza regole, se non quella dell'arbitrio dei potenti sugli umili, e nessuno è in grado di scommettere sulla corretta implementazione di un'eventuale serie di misure liberalizzatrici al riparo dai consueti abusi

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